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 2021  luglio 02 Venerdì calendario

Intervista a Carlo Cracco

Ci vuole coraggio ad aprire un ristorante adesso. «E forse anche un pizzico di follia», aggiunge Carlo Cracco. Lui a inizio 2019 era al top.
Con in Galleria a Milano aveva coronato il sogno di una vita. Poi la pandemia, lo stop forzato una, due volte. Roba da rimanerci sotto. Invece quando l’Italia sembra rialzare un primo sguardo sull’orizzonte lo chef rilancia: prima una nuova apertura sui Navigli a Milano e, da oggi, un ristorante a Portofino, dove un tempo c’era il Pitosforo.
Carlo Cracco, perché?
«Ogni tanto, durante la giornata, mi chiedo davvero se sono pazzo… In verità dopo un 2020 passato a leccarci le ferite ho deciso che bisogna andare avanti. Siamo ben lontani dalla normalità pre-Covid, ci vorrà ancora tanto tempo. Proprio per questo non dobbiamo aspettarlo, quel tempo, ma anticiparlo».
E perché Portofino? Non siamo più ai giorni di Onassis e Jacqueline...
«Ho un legame forte con la Liguria, ci avevo lavorato da giovane anche se a Ponente, Gualtiero Marchesi ne parlava sempre. È capitata un’occasione, il Pitosforo era chiuso da qualche anno eppure ho annusato la storia, era un ristorante gastronomico già ai tempi, valeva la pena provarci, una bella sfida».
Che cosa sarà Cracco Portofino?
«Un omaggio alla Liguria, zona ricca di storia e di elementi. I prodotti della terra li prendo dall’interno e poi c’è quello che regala il mare, il gambero di Santa Margherita, la piccola tonnara di Camogli, le alici delle Cinque Terre… È più che mai fondamentale il rapporto con il territorio, il nostro futuro passa dalla sostenibilità, qui riscopro il bello di parlare con i pescatori quando rientrano alla sera e vedo che cosa il mare offre direttamente».
Cracco, ha accennato alla ristorazione. Non è che se la stia passando benissimo.
«Vero, e i motivi sono tanti».
Quali i più importanti?
«La serietà. La ristorazione non è per tutti, ci vogliono passione, regole. E rispetto. Rispetto per chi lavora con te e per chi viene da te. Se noi chef siamo visti come fighetti o per gente da capriccio, una volta e via, vuol dire che non siamo stati capaci di farci capire, di trasmettere all’esterno e alla politica che cosa c’è davvero dietro al nostro mondo».
Che cosa bisogna fare?
«Da parte nostra, rimanere più che mai uniti, il percorso lo abbiamo intrapreso ma dobbiamo esserlo ora in modo forte. Rilanciare l’importanza dei prodotti del territorio e di chi li valorizza, la ristorazione può essere come l’arte per l’Italia. Passione, professionalità, energia. Ma non basta».
In che senso?
«Abbiamo bisogno di un interlocutore politico. Uno. Solo così possiamo dare vita a una “casa” della ristorazione. Costruiamo insieme il futuro della ristorazione italiana. Noi chef siamo pronti a fare la nostra parte, ma non dobbiamo essere soli».
Tanti suoi colleghi sono andati in piazza a protestare nel periodo delle chiusure. Perché lei no?
«Io non sono un tipo da piazza.
Protestare è facile, anche piangersi addosso. Io credo che prima si debba proporre, pensare, creare una coscienza. Adesso lo stiamo facendo e, come detto prima, abbiamo bisogno di un interlocutore».
Non è andato in piazza però si è schierato pro legge Zan.
«Ma come si fa a non essere d’accordo nel 2021, parliamo di diritti sacrosanti. Dovrebbe essere la base della società civile, la normalità».
Torniamo al manifesto per una nuova ristorazione. Come si concilia con l’assenza di personale, con le proteste dei giovani?
«Anche questo è uno dei motivi che rendono necessario il cambiamento.
Non è vero che non si trova il personale, il problema è come lo tratti. Se pensi a fare il nero, se non consideri il personale parte fondamentale e non lo metti in regola, è logico che poi non lo trovi.
Invece si deve fare formazione, puntare a far crescere i ragazzi, insegnare. Così li fai entrare davvero nel mondo del lavoro. I giovani sono una risorsa».