Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2021
130 Paesi dicono «sì» alla tassa minima globale
Centrotrenta sì. Su 139 partecipanti alla trattativa. Il nuovo accordo Ocse che fissa al 15% l’aliquota minima per le imposte sui profitti delle multinazionali fa un nuovo passo in avanti. La stragrande maggioranza dei Paesi ha espresso ieri consenso allo statement che ne fissa i principi. All’approvazione definitiva manca quindi il passaggio al summit del G20, previsto per il 9 e il 10 luglio a Venezia, e poi un’ultima intesa sui dettagli tecnici, sempre a Parigi in sede Ocse, a ottobre. Dal 2023 potrà entrare in vigore e generare entrate aggiuntive, per gli Stati, oggi valutate in 150 miliardi di dollari l’anno.
C’è tempo dunque per convincere i nove Paesi che non si sono allineati. Tre di loro sono membri dell’Unione europea: l’Irlanda, l’Estonia, che applica un’aliquota del 14% (ma solo alle imprese che distribuiscono dividendi) e l’Ungheria, dove l’imposta è pari al nove per cento. A essi va aggiunta Cipro, che non ha partecipato alle trattative (e impone un’aliquota del 12,5%).
L’assenza di questi Paesi rappresenta evidentemente un problema, per la Ue. Il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire non a caso ha già annunciato che la prossima settimana farà «tutti gli sforzi necessari perché aderiscano». La lista degli Stati ancora in disaccordo è poi completata da Kenya, Nigeria, Perù, Sri Lanka, e due microstati, Barbados – che la Ue ha da poco cancellato dalla lista dei paradisi fiscali – e Saint Vincent e Grenadine.
Hanno invece aderito tutti i grandi Paesi, compresi alcuni grandi Emergenti come Cina, India, Russia, Brasile, Turchia che si temeva si sarebbero potuti sganciare, sia pure per ragioni tutte politiche (per tutti, l’aliquota è superiore alla soglia minima). Anche la Svizzera, che ha un’imposta federale dell’8,5% alla quale si aggiungono imposte cantonali che portano l’aliquota complessiva – secondo la Pwc – tra l’11,9% e il 21,6% ha dato il suo consenso. I 130 firmatari rappresentano il 90% del Pil mondiale, secondo l’Ocse.
L’intesa non si limita a fissare un’aliquota minima (per le imprese con un fatturato di almeno 750 milioni di euro, e l’esclusione di fondi di investimento e fondi pensione e compagnie di shipping): il primo pilastro dell’accordo affronta il problema della tassazione delle imprese che possono vendere prodotti su un mercato indipendentemente dalla loro presenza fisica, e quindi possono scegliere la sede più favorevole sul piano fiscale (è il caso, in Europa, dell’Irlanda). L’intesa ora prevede che gli utili siano tassati in base al luogo dove vengono realizzati, indipendentemente – appunto – dalla presenza fisica. Dalla regola sono escluse miniere e servizi finanziari regolati.
Le nuove norme si applicheranno alle multinazionali che abbiano ricavi per oltre 20 miliardi di euro – una soglia che potrebbe essere ridotta a 10 miliardi dopo sette anni di vigore dell’intesa – e una redditività superiore al 10% (utili pre tasse su ricavi). Dovrebbero redistribuire, tra i diversi Paesi, profitti – in eccesso del 10% dei ricavi – per 100 miliardi di dollari.
Grande soddisfazione è stata espressa dal mondo politico politico. Janet Yellen, la segretaria al Tesoro statunitense che per prima ha avanzato la proposta, considera quella di ieri «una giornata storica per la diplomazia economica», sottolineando come la «corsa globale al ribasso» abbia colpito negativametne anche gli Stati Uniti che hanno «ridotto le loro imposte solo per vedere altri ridurle ancora di più». Anche il presidente Joe Biden ha parlato di «un importante passo avanti verso un’economia più giusta». In Europa, il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz ha parlato di «colossale progresso» mentre Le Maire ha detto che «è il più importante accordo fiscale dell’ultimo secolo». Per Paolo Gentiloni, commissario Ue per l’Economia, è «un passo storico verso una tassazione più equa delle multinazionali».