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 2021  luglio 01 Giovedì calendario

Partito comunista cinese, cent’anni di resilienza

Gennaio 2020. L’ex diplomatico Kerry Brown, accademico tra i massimi interpreti delle liturgie di Zhongnanhai, cuore del potere di Pechino, spiega agli allievi di un college londinese il segreto dell’elisir di lunga vita del Partito comunista cinese. Il nuovo contagio, ancora senza nome, serpeggia a migliaia di chilometri da quell’aula, solo pochi giorni dopo la nomenklatura, attonita, sarà costretta a fronteggiarlo nell’epicentro, Wuhan.
Nell’aria che sa di legno delle boiserie mista al profumo di libri antichi rilegati, la parola magica che risuona è una sola: resilienza. Ovvero, spiega il professore, la capacità innata di fronteggiare le insidie dell’evoluzione perché il Partito è un corpo unico, dotato di vita propria, sganciato dalla materialità, in grado di assorbire i colpi più duri della Storia conservandosi intatto nella sua funzione primaria: servire il popolo cinese.
Si fatica a cogliere una nota di spiritualità nei rigidi rituali del Congresso nazionale del popolo cinese, ma la resilienza evocata da Kerry Brown inquadra alla perfezione il giro di boa dei cent’anni che si festeggia oggi a Pechino con gran pompa, minuziosamente preparata. Cent’anni, meta straordinaria per un essere umano, figurarsi per una formazione politica sopravvissuta a tutto che oggi conta 95 milioni di iscritti e al vertice della piramide ha sette uomini d’oro con un core leader a vita, Xi Jinping. Mai come in questo momento il Governo cinese è il Partito e il Partito è il Governo.
La resilienza, nel tempo, si è convertita in quella stabilità che ha permesso alla Cina di traghettare 800 milioni di persone dai meandri della fame a quelli della materia oscura, all’emancipazione – in soli vent’anni di membership Wto – dallo status di più grande Paese in via di sviluppo al mondo, permettendo ai “bangbang”, i facchini migranti di Chongqing dotati solo di bastone di bambù, di farsi pagare via cellulare.
Wuhan è stato l’ultimo crash test di resilienza dalla nascita rocambolesca, il 1°luglio 1921, a Shanghai, del Partito Comunista Cinese. Trent’anni dopo, il 1° ottobre 1949, al termine di quel caso da manuale di resilienza estrema che è stata la Lunga Marcia, nasceva la Repubblica Popolare Cinese del grande timoniere Mao Zedong, leader del Partito e di un Paese povero, segnato da colonizzazioni, invasioni, saccheggi e guerre civili.
Il Partito, garante della stabilità, si è fatto garante della crescita. Città più popolate delle campagne, servizi più trainanti dell’agricoltura, disoccupazione ai minimi.
Unico Paese al mondo ad utilizzarlo ancora come strumento di pianificazione, la Cina a marzo ha approvato il 14esimo piano quinquennale 2021-2025 e le linee di lungo periodo 2035, con grande enfasi su sostenibilità ambientale e liberazione dal carbone entro il 2060. Il primo, varato nel 1953, si occupava di cooperative agricole e sviluppo industriale, ignaro degli errori in agguato del Grande Balzo in avanti. Nel 1957, il Pil era già cresciuto del 55% rispetto a cinque anni prima. Nel 1978, con la Terza plenaria del Partito, la leadership di Deng Xiaoping inaugurava la politica della Porta Aperta, architrave del socialismo con caratteristiche cinesi nella Nuova Era, teorizzato dal 19esimo Congresso del 2017. Nel 1980 il Pil pro capite era di 300 dollari, 950 nel 2000, 10.400 nel 2020.
Poi lo shock dei fatti di Tienanmen, il partito sull’orlo del collasso che stringe i ranghi, a ogni costo. La crisi finanziaria globale del 2008 con l’adozione di una misura di stimolo-boomerang. E il declino del Pil a doppia cifra, il crack della borsa di Shanghai del 2015, con la Cina muta per ore davanti a 5 trilioni di dollari andati in fumo. La proiezione Go Global, già nel 2013, arriva con la Belt&road initiative (BRI) euroasiatica, accordi di libero scambio a raffica culminati nel RCEP, con 15 Paesi, pari al 30% del Pil globale e a un terzo della popolazione mondiale. Le free trade zone, l’apertura dei mercati finanziari, la sfida dello yuan non convertibile già pronto a correre in digitale.
Poi il Covid-19, il crollo dell’economia, la risalita nell’ultimo quarto dell’anno scorso. Di ieri il quasi regalo della Banca Mondiale per il centesimo compleanno, con le previsioni del Pil 2021 al rialzo da 7,9 a 8,5 per cento. 
Le orme dell’economia, finora, portano sempre lì, diritto al Partito, come pure tutti i primati che la Cina si attribuisce, finalizzati al sorpasso finale sugli Usa entro fine decennio. Forse troppo. L’assedio a Xi Jinping e al Partito è già iniziato – Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, la Ue – e a coordinarlo è un presidente americano vecchio stampo come l’ultrasettantenne democratico Joe Biden, mentre Pechino affronta l’incognita dei leader di settima generazione, figli unici nati negli anni Sessanta, mentre i coetanei occidentali erano frutto del baby boomer. Il 2022 richiederà molta resilienza. Ma è il partito in sè che conta. Riposte le medaglie luccicanti nei cassetti, la missione del corpo unico continua.