il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2021
Intervista a Valeria Golino
È una doppietta al quadrato quella di Valeria Golino al 67° Festival di Taormina (fino al 3.7), in cui non solo è interprete in due film, ma in uno di questi fa vivere una donna di doppia “identità”. Coraggiosa come la conosciamo, l’attrice e regista ha ancora una volta dimostrato di saper selezionare le opere cui associare il proprio talento. Eccola dunque protagonista in Occhi blu, esordio in regia della collega Michela Cescon (nelle sale per I Wonder Pictures dall’8 luglio), e personaggio “chiave” ne La terra dei figli di Claudio Cupellini (in uscita oggi per 01 Distribution).
Due lavori assai diversi tra loro ma accomunati dalla valorizzazione del cinema di genere – il primo è un omaggio alla miglior tradizione del noir, più specificamente del polar, il secondo si ascrive alla fantascienza distopico/post-apocalittica –, ma soprattutto dell’idea del guardare, nutriti da quella forza dello sguardo che si chiama cinema. E se questo titola in maniera evidente in Occhi blu, in cui Golino è una “woman in black” tanto veloce nell’azione quanto silenziosa nella vita, nel dramma esistenzialista di Cupellini emerge nel paradosso della cecità che caratterizza il suo personaggio, una sopravvissuta rasta e sensibile soprannominata La strega.
Partendo dalla magnifica opera prima di Cescon, come definisci questa donna anomala, una silente motociclista in black di notte e una semplice impiegata di giorno, certamente diversa dai personaggi finora da te interpretati?
«È un personaggio favoloso, di quelli normalmente “abitati” dagli uomini nel nostro immaginario, specie nelle sue qualità di apatia, di rigore matematico, di comportamento studiato ai limiti del chirurgico».
Si tratta di una villain, ed è la seconda volta che “fa la cattiva” dopo Lasciami andare di Stefano Mordini. Come c’è finita nei panni di questa rapinatrice inafferrabile quanto implacabile?
«Questo ruolo, così come quello che mi ha offerto Mordini, più o meno consapevolmente lo andavo cercando perché per mi interessa da spettatrice, da interprete, da regista. Dopo 30 anni di carriera, sento l’esigenza di “levarmi da me”, togliermi quegli orpelli che mi porto addosso e che – volente o nolente – hanno determinato il modo in cui il pubblico mi percepisce. Questo accade a tutti gli attori quando diventano troppo se stessi. Per quanto mi riguarda l’effetto è di indagare ruoli al limite dello sgradevole. Rispetto all’ingannatrice di Lasciami andare, che era più convenzionalmente legato ai tipici tratti della dark lady, la motociclista creata da Michela è un personaggio estremamente contemporaneo, ferocemente estraneo».
Michela Cescon si è rivelata una narratrice immaginifica. Come avete dialogato attorno al film?
«Certamente abbiamo parlato molto prima del film ma l’esercizio da parte mia è stato di ascoltarla a fondo. Poi la vera cifra stilistica è arrivata solo a inizio riprese, come una sorta di rivelazione che fino ad allora era rimasta inespressa, oscura a lei, a me. Gradualmente Michela ha iniziato a sfrondare, a lavorare sull’essenza, e così ha fatto sul mio personaggio che lei stessa rifiutava di guardare, non a caso spesso mi ha ripreso di spalle, di nuca. Non voleva conoscere questa donna, si è imposta di cancellare tracce del suo passato portatrici di motivazioni, le bastava il suo presente e – nel paradosso – di mostrare il pre e il post delle azioni, esercitando un sapiente utilizzo del fuori campo».
Passando all’interessante lavoro di Cupellini, alcune frasi sembrano alludere al nostro “post pandemia”, benché il film sia stato girato prima che scoppiasse. Una è “ti puoi fidare” per bocca della sua Strega. Quanto maggiormente pesano oggi queste parole così necessarie ma difficili da pronunciare?
«È vero, da sempre esercitano una grande potenza che oggi suona decuplicata. Ma è importante continuare a sentirsele dire e a dirle: ecco, è una cosa che vorrei sentire dire e vorrei dirla agli altri a mia volta più spesso. Io per natura mi fido molto, per me le persone sono tutte innocenti».
Emblematica è soprattutto “Manca a tutti la vita com’era prima”. È così, oppure vorremmo migliorare l’esistenza che avevamo nel pre-Covid?
«Questa frase mi ha evocato più potenza risentendola nel film rispetto a quando l’ho pronunciata facendolo. All’epoca pre-pandemica, infatti, era astratta, ora invece ci riguarda tutti. Sarebbe bello ritornare a una consapevolezza “altra”, più evoluta, direi lungimirante. Fra tutte le cose che ho sentito in questo anno e mezzo, cioè tutto e il suo contrario, quanto ho notato maggiormente è proprio la mancanza di lungimiranza, specie in chi ci governa. Nessuno si ricorda di cosa sia accaduto prima. Quello mi disturba molto. La storia si ripete, è un’amara verità. O forse, più semplicemente, è questa la legge del sopravvivere».