Corriere della Sera, 1 luglio 2021
Il Dante di Saviano
Non si può parlare di Dante senza partire dalla sua biografia, non si può parlare di Dante come «poeta laureato» senza raccontare lo iato che esiste tra il Dante apprezzato da noi oggi e il Dante disprezzato dai suoi contemporanei. E Dante non fu solo un uomo di lettere, ma fu soprattutto un intellettuale impegnato, e la sua attività politica, insieme alla verve intellettuale, rovinò per sempre la vita sua. Per Dante non è esistito nulla al di fuori dell’impegno; ricordiamolo questo, quando ci viene consigliato di tenerci alti, equidistanti, di non entrare troppo nelle cose, di non essere divisivi, di non prendere posizione. Chi esorta l’intellettuale a essere distaccato, crede di vivere in un mondo pacificato, cosa che non è, che non è mai stata e che mai sarà.
Dante fu accusato, dopo il colpo di Stato a Firenze del 1301, di «baratteria», cioè peculato e concussione, ovvero distrazione di fondi pubblici ed estorsione, in altri termini mazzette, che avrebbe preso per nominare i nuovi priori. Fu accusato anche di aver favorito gli amici, e – per danaro – di aver tradito Firenze e fatto opposizione al papa.
«Per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese», diceva Giovanni Falcone e Dante, che fu solo condannato ad essere ammazzato, che fu perseguitato, vilipeso, umiliato insieme alla sua famiglia e costretto a elemosinare riparo, in vita credibile non fu mai.
Noi oggi siamo abituati alle statue, alle icone con la sua effige, alla retorica vuota del «padre della patria»; siamo abituati al «guai a chi ce lo tocca Dante!», ma quando era vivo?
Quando era vivo si provò solo a soffocarlo, affinché smettesse di parlare. Gli si confiscarono i beni, gli si assediarono i familiari, lo si rimosse da ogni carica politica, con condanne e diffamazioni ostative, che ne impedivano il reincarico in altri comuni. Non poté mai riprendere a fare quello che faceva a Firenze: l’interdizione dai pubblici uffici valse oltre il perimetro della sua città. E l’esser stato condannato per «opposizione al papa Bonifacio VIII» gli impediva anche di ottenere un beneficio ecclesiastico, una di quelle rendite con cui all’epoca si manteneva la classe intellettuale europea, non potendo guadagnare dalla pubblicazione di libri, podcast o articoli. Non poté trovare neppure asilo in Francia, come fecero altri suoi compagni di partito, perché fu condannato anche per essersi opposto a Carlo di Valois, fratello del re di Francia.
Vent’anni d’esilio, senza la possibilità di fare ritorno in patria; venti anni a vagare, seguendo gli umori di questo o quel protettore, di questa o quella città. A seconda che si decidesse di fare affari o meno con Firenze – all’epoca la più potente e ricca città d’Europa – a Dante si offriva un riparo o lo si cacciava.
E Firenze faceva terra bruciata attorno ai suoi oppositori, colpendo anche chi offriva loro un porto d’attracco. Nessun imbarazzo per Firenze se, come accadeva, i tribunali di mezza Europa condannavano i fiorentini per i loro illeciti in materia finanziaria e se, dire fiorentino, spesso volesse significare «speculatore», «banchiere senza scrupoli», addirittura «falsario». Nessuna vergogna se i suoi cambiavalute finanziavano le imprese più ignobili e le guerre più atroci e ingiuste. Ma se uno come Dante, invece di fare profitto, provava a denunciare quelle storture, allora gli si rendeva la vita impossibile.
Un paio d’anni prima della sua morte, il podestà di Ravenna, Guido Novello da Polenta, decise che era stato fin troppo disumano tenere Dante, per diciott’anni, in quel limbo di precarietà assoluta. Trovò così un escamotage per toglierlo per sempre dalla dipendenza da terzi, cui l’esilio lo aveva costretto: fece pressione sul clero locale affinché al figlio, Pietro Alighieri, fossero assegnate due piccole rendite, bypassando così l’interdetto che pesava sul padre. Due piccole chiese ravennati, la cui rendita annua permise alla famiglia di vivere in maniera decorosa, senza più mendicare il pane «salato» altrui. Ma durò poco perché, nemmeno in quell’occasione, a pochi mesi dalla sua morte – che lo coglierà nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 – Dante fu graziato: la curia pontificia bloccò al figlio Pietro l’usufrutto di quelle piccole rendite, lanciandogli contro la scomunica. Il motivo? Una tassa non pagata. O magari pure pagata, ma fatta risultare evasa in modo che nuove rogne si aggiungessero ai molteplici guai e interdetti che già pesavano sulla tormentata famiglia Alighieri. È strano, ogni volta in cui mi metto sulle tracce di qualcuno la cui voce si è cercato di silenziare, finisco sempre con l’imbattermi in una contravvenzione non pagata. Ecco, forse questa è la cosa che più dovrebbe offenderci, che per incastrarli non ci si prenda mai neppure la briga di montare grandi casi, una grande evasione, tipo quella di Al Capone, per intenderci. No, li bloccano sempre con un piccolo cavillo, una spina conficcata nella carne, che può sentire solo il perseguitato, ma che dall’esterno non è neppure visibile. Reputazioni e vite rovinate da piccole multe – magari per eccesso di velocità: è successo a Daphne Caruana Galizia, a Martin Luther King, ad Anna Politkovskaja… e, prima che a loro, a Dante Alighieri!
Almeno a Dante non toccò l’accusa di plagio… e però non so se è un sollievo questo; non gli toccò solo perché la sua Commedia era considerata niente: materia viscida, scritta male, volgare, nell’idioma degli osti, buona da recitare nelle taverne con un bel po’ di alcool in corpo.
Ecco come fu trattato il nostro «Sommo Poeta» in vita: come un evasore fiscale, un corrotto, un immorale, un profittatore, un traditore e per giunta manco bravo, anzi, un mezzo analfabeta che neppure riusciva a scrivere un’opera meritoria in latino.
Quello che con troppa enfasi chiamiamo il «Padre della Patria», da vivo, fu solo un condannato e un diffamato: «Un Ciolo qualunque», e cioè un tangentaro, un mazzettaro, uno che prendeva le bustarelle. Ciolo degli Abati era il famoso corrotto fiorentino a cui Dante diceva di essere stato equiparato. Uno sulla cui disonestà, a tutti manifesta, ai tempi di Dante si coniò persino un proverbio, che più o meno recitava così: quando arriva il tempo di Ciolo, chi ha rubato, in luogo di scusarsi, butta fango sui derubati!
Proprio quello che accadde a Dante: i golpisti – cioè i guelfi neri, quelli cui, a notte fonda, furono proditoriamente aperte le porte della città da Carlo di Valois, manutengolo del papa – buttarono addosso a lui, guelfo bianco, il fango di accuse infamanti.
Dopo una notte di stupri, di incendi, di saccheggi, di mutilazioni, di arresti arbitrari, di omicidi si disse che Dante doveva presentarsi a giudizio; Dante, e non quelli che quei crimini avevano commessi! E però c’è ancora chi sostiene che qualcosa di vero nelle accuse che gli furono mosse esisteva. E questo perché i golpisti si preoccuparono – come è ovvio – di «scrivere» la storia, tramite il loro cronista di partito, Giovanni Villani, secondo cui qualcosa di anormale quella notte effettivamente accadde, ma tutti ne ebbero colpa, perché nella sua versione dei fatti fu un’idea delle vittime quella di aprire le porte ai golpisti. Questo accade, quando arriva il tempo di Ciolo: che persino la colpa di aver aperto la porta agli aguzzini viene caricata sulle spalle delle vittime!
Quello che chiamiamo «Padre della Patria» da vivo fu solo un condannato e un diffamato: un tangentaro, un corrotto, un traditore, un immorale
E Cante dei Gabrielli da Gubbio, il grande e «rispettabile» podestà issato a Firenze dai golpisti, all’indomani del colpo di Stato, si sbrigò subito a iscrivere Dante nel registro degli imputati condannandolo al pagamento di 5 mila fiorini per non essersi presentato in giudizio.
E perché mai Dante non si presentò? E come poteva farlo! Chi di noi si sarebbe presentato davanti a un tribunale fasullo? E comunque, dove poteva trovare Dante in tre giorni la somma richiesta, 5 mila fiorini piccoli, vale a dire oltre 50 mila euro? Chi tra noi si presenterebbe davanti a un tribunale uscito da un colpo di Stato? Nessuno, e non solo perché facendolo rischieremmo la vita, ma soprattutto perché palesandoci al cospetto di un tribunale del genere, gliela regaleremmo la nostra vita! E la vita, ai prepotenti, non si regala. Come potremmo accettare di offrire una sponda al crimine partecipando a un processo farsa? Come potremmo legittimare quel potere e quel tribunale? Questo, più che la Commedia, fa di Dante il padre della Patria: l’aver preferito che la sua condanna fosse commutata in una sentenza di morte, piuttosto che inchinarsi al crimine.
Noi oggi ricordiamo solo ciò che Dante è divenuto dopo Dante. E cioè da morto, quando era ormai credibile perché non faceva più paura a nessuno. Da morto non poteva più scrivere le sue lettere piene di verità, non poteva più dare dei «lupi rapaci», delle «belve feroci», dei «laidi corrotti» alla classe politica fiorentina. Solo chiuso in una tomba sigillata con calce, la sua città smise di dargli del traditore, dello sputtanatore, del corruttore, di uno che aveva fatto i soldi a palate approfittando delle piaghe della sua città. Solo allora a Firenze s’iniziò a parlare bene di lui, si iniziò a pagare Boccaccio affinché leggesse la Commedia , in un ciclo di pubbliche conferenze, ben pubblicizzate, in luoghi prestigiosi. Solo allora si permise ai fiorentini di mettersi in fila per ascoltare le sue parole, parole che, lui morto, non erano più tritolo.
Prima però, a Firenze, c’era solo imbarazzo per quel fastidioso cane da catastrofe che sbraitava troppo, come fosse un megafono sempre acceso, nel cui racconto Firenze non era la città più bella del mondo, ma solo la più corrotta!
Firenze, come tutti dicevano, era la città delle banche. Ma che tipo di banche? Quelle che garantivano prestiti illimitati a qualunque governo, a prescindere dall’uso che ne avrebbe fatto; quelle che finanziavano pure le manovre più discutibili e disinvolte dei privati, chiedendo solo la restituzione del prestito e dell’interesse dovuto, incuranti se i fiorini d’oro tornavano indietro grondanti sangue.
Appena Dante, prima in qualità di priore, poi in qualità di consigliere dei Cento, iniziò invece a bloccare ogni finanziamento destinato a tornare indietro in quelle condizioni, si decise di farlo fuori. E poi, siccome quello era il tempo di Ciolo, si disse che aveva rubato; passarono al setaccio ogni sua proprietà per confiscargliela, ma il danaro che avrebbe rubato non saltò fuori. L’esilio, infatti, com’è noto, Dante non lo trascorse in una dimora di lusso edificata, magari, con i denari sottratti mentre era in politica, ma mendicando un pane salato, al cui sapore non si abituò mai.
E Dante, in vita, non fu considerato solo un ladro corrotto, ma anche un mediocre letterato. Pochi anni prima che morisse, stimati intellettuali ancora gli scrivevano lettere sarcastiche dall’Università di Bologna per dirgli che, se voleva diventare un intellettuale vero, la doveva smettere con quella robaccia del volgare! E basta pure con tutta quella merda, che inonda a fiumi l’inferno, uscendo dagli intestini bassi e infetti dei dannati. Basta con quei corpi nudi, sguaiati, scomposti, carnali, rigurgitanti umori, squartati dal ventre all’ano, con i culi in mostra a servire da trombetta. Basta con quello stare sempre a stilare la lista di quello che non va, invece di descrivere boschi ameni, selve idilliache, ninfe apollinee, che erano d’interesse per la cultura preumanista. Quella era materia che dava decoro all’Italia, che la celebrava come faro di civiltà, custode di un glorioso passato. Quella era la forma, la maniera, le note, il profumo che si voleva sentire tra gli scranni della cultura alta.
Oggi la Commedia per noi è la Commedia. Ma quando Dante era vivo la Commedia era considerata un’accozzaglia di rutti, e per di più materia incandescente: troppo freschi i fatti di cronaca che raccontava; troppo aperti i giudizi che intercettava; troppo attuali i mali della cattiva politica che denunciava; e troppo viventi i mammasantissima che tirava in ballo.
Ma attenzione, nel diffamare Dante, non se ne diceva solo male. Questo è un trucco che conosco bene: chi ti diffama sta sempre attento a seguire la regola del cinquantacinquanta. Basta un segmento: ha sempre denunciato le iniquità, ma ha rubato. Basta una parola per delegittimare tutta una vita. E chi delegittima usa sempre il doppio livello: salva qualcosa e condanna il resto. È un metodo che serve a dimostrare che c’è stata valutazione, che il giudizio è distaccato, che non c’è nulla di personale nell’attacco. È un modo per apparire equidistanti, per fingere di star dicendo la verità. E così Dante fu metà buono, metà cattivo; metà da salvare, metà da buttare; metà poeta, metà presuntuoso; metà vittima, metà vittimista.
Oggi sta a noi capire Dante, capire cosa abbiamo davanti. E la Commedia non è «alto poema» o «orgoglio italico»; la Commedia è ostinazione, la Commedia è ribellione: la Commedia è soprattutto vendetta. La vendetta di uomo che trovò il modo per raccontarci come andarono davvero le cose. È la vendetta di uno a cui in vita non si fece che ripetere che era un traditore, uno sputtanatore della patria, un presuntuoso, un prezzolato, un corrotto, un corruttore, un bandito, un pericoloso criminale, un disonesto. Uno a cui per tutta la vita non si fece che ripetere che la verità mica si può dire, che bisogna prima chiedere il permesso, che bisogna mettersi in fila e che comunque, prima, devono decidere se hai i requisiti per dirla.
Ma Dante non si mise in fila. Non si fece intimidire. Non si lasciò atterrire dalle calunnie. Non aspettò che gli si assegnasse l’argomento di cui parlare. Non parlò in latino. Non raccontò della bellezza italica. Non si fece censurare. Usò un linguaggio crudo. Non tenne basso il tono della voce.
Dante, la verità, la gridò.
Hanno ammazzato Dante, Dante è vivo!