la Repubblica, 1 luglio 2021
Il progresso in letteratura
Sono fortemente miope. Vent’anni fa, ho avuto un problema vascolare all’occhio destro. Si era verificata un’emorragia a livello della macula e in una settimana avevo perso completamente la visione centrale. Ho dunque un solo occhio funzionante, il sinistro. Sei mesi fa, ho notato una deformazione all’interno del campo visivo. Una volta in ospedale, al pronto soccorso, il medico mi ha visitato l’occhio sinistro, diagnosticando un problema identico a quello di vent’anni prima, mi ha prescritto due iniezioni di un prodotto miracoloso, apparso sul mercato negli ultimi dodici anni e, per rassicurarmi, mi ha detto: «Non si preoccupi, abbiamo fatto dei progressi».
Rivendico dunque una personalissima competenza in materia di progresso. In un certo senso, si può dire che, letteralmente, io vedo bene che cosa sia. Constatando de visu quanto io gli debbo, mi dico ogni mattina che Einstein ha torto, e che, no, il progresso tecnico non è sempre «un’ascia nelle mani di un criminale psicopatico». Anche se, in ambito anche oftalmologico, il progresso ha ancora molti progressi da fare.
Non dimentico però che il mondo ha timore del progresso. Penso a un racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, Senza colori, in cui il mondo, al suo nascere, vede spuntare i colori. Il fenomeno induce meraviglia nel narratore Qfwfq, mentre un altro personaggio ne è invece terrorizzato, incapace com’è di adattarsi a un mondo animato dal progresso. In un altro testo della stessa raccolta, Lo zio acquatico, Qfwfq, sempre lui, in piena evoluzione, finisce per diventare terrestre pur essendo di origini acquatiche. Sulla terraferma, si innamora di Lll, una graziosa bestiola più evoluta di lui: Qfwfq, ohimè, che stravede per il progresso, le presenta, per sua sfortuna, un vecchio zio, N’ba N’ga, un pesce preistorico.
Quest’ultimo affascina la creatura a tal punto che è con lui che questa decide di fuggire. Sposando «lo zio acquatico», facendo volontariamente ritorno a un stadio antecedente dell’evoluzione, lei compie una scelta di tipo identitario, rifiutando di vivere secondo la norma che le avrebbe imposto il progresso.
«La tradizione e il progresso sono due grandi nemici del genere umano» scriveva Paul Valéry. E tuttavia, l’una e l’altro sono modalità d’azione umane. Noi tutti, siamo riuniti grazie all’incontestabile successo di un antico progresso, quello della scrittura, e alla vivacità di una tradizione, quella della letteratura.
L’Opificio di letteratura potenziale (L’Oulipo), di cui faceva parte Calvino, e di cui faccio parte anche io, nutre un profondo rispetto per il passato. È il punto di partenza di ogni progresso. Cionondimeno non saprei definire il progresso, in letteratura. Se la ruota genera al contempo l’ingranaggio, la puleggia e la turbina, devono pur esistere nelle arti filiazioni del medesimo tenore. Dopo tutto, l’impressionismo deve molto all’invenzione del tubetto di vernice, e sappiamo tutti che il sonetto, l’ haiku, la villanelle non nascono certo dal nulla. La stessa cosa si potrebbe dire della lingua. Non so se tutto ciò abbia a che fare con una qualche forma di progresso, ma mi piace pensare che quando la lingua guadagna una parola, le frontiere del nostro mondo si allargano, estendendosi a tutto ciò che quella parola dice.
Come che sia, ricordo il testamento di un operaio dell’Ottocento, nell’ultima lettera che aveva lasciato ai figli.
Ai quali raccontava la sua vita di fatiche, prodigando gli ultimi consigli, volendo essere sicuro della loro futura felicità. Era un testo commovente, semplice, eppure pieno di parole a volte complesse. Un giovane dottorando esaminò il testo con spirito sistematico. Ebbene, notò che tutte le parole difficili utilizzate dal vecchio operaio iniziavano con una lettera che precedeva la lettera L. Il vecchio signore aveva comprato uno dei primi dizionari e, a quanto era dato di capire, lo stava imparando a memoria, in ordine alfabetico. Amo molto l’espressione “a memoria”. E sarebbe dunque morto prima di attaccare la lettera M. Senza mai conoscere, forse, parole come “metonimia”, “prototipo” e “malaticcio”.
Non so che cosa questa storia racconti, se sia la metafora di qualcosa. So, però, che mi tocca nel profondo, giacché sento che parla di una strenua ricerca, della strenua ricerca del linguaggio, della strenua ricerca del sapere, e dunque della strenua ricerca della dignità.
Questa conquista della propria stessa lingua, della sua complessità, era l’estremo suo orgoglio d’uomo, l’estrema sua utopia, che non avrebbe mai visto avverarsi. Era insomma la strenua sua ricerca del progresso giacché quest’ultimo non è mai altro che l’avverarsi delle utopie.
(Traduzione di Anna D’Elia)