la Repubblica, 1 luglio 2021
Intervista a Bebe Vio
Tutti a scuola da Bebe. Quelli come lei ma anche come lei, quelli normali perché di normale non c’è mai niente con Vio. La campionessa olimpica, mondiale ed europea di fioretto, 24 anni, portabandiera alle Paralimpiadi di Tokyo (con Federico Morlacchi), racconta della sua Bebe Vio Academy, programma di sport per disabili e normodotati da settembre a Milano.
Cosa insegnerà?
«Che lo sport è di tutti e noi mettiamo tutti insieme: amputati e altri disabili accanto ai ragazzi a posto, quelli tutti interi. Per far capire che paralimpico e olimpico sono ok, ma insieme funzionano anche di più».
Quelli che lei dice “interi”, cosa impareranno?
«Al livello tecnico il paralimpico migliora alcune caratteristiche dell’olimpico. Esempio: nella scherma uno in piedi utilizza il 100% del proprio corpo, allena tecnica, braccio, velocità, precisione, parte alta e bassa. Se si siede in carrozzina e tira con me, è obbligato a non usare il 50% del proprio fisico e a migliorare l’altro 50. Poi, ma non dopo, c’è il livello culturale: vogliamo creare integrazione e nuove generazioni per uno sport senza pregiudizi.
Servono le condizioni fisiche migliori, piena accessibilità e un punto di vista nuovo».
Come?
«Partendo dai più piccoli.
L’Academy è aperta ai 6-18enni, offre competenze, divertimento, esperienza: gli studenti di Scienze motorie della Cattolica possono fare da noi i loro crediti formativi.
Credo negli studi in generale, anche Valentina Vezzali sta lavorando perché gli sportivi abbiano un futuro migliore. Da noi tutti trovano normalità: un bambino normodotato che nello spogliatoio vede uno che si stacca la gamba usuale e si mette quella da atletica, farà un sacco di domande ma un momento dopo giocherà con quella gamba come fosse un giocattolo. Crescendo riterrà ovvio che ci siano persone con fisicità diverse e altrettanto sarà lo stare insieme. La chiave?
Anche quando un genitore non dirà “non guardare” un amputato ma vai e chiedi come funziona una protesi, una carrozzina e come c’è arrivato là. Allora i bambini avranno una mentalità completamente diversa».
Siamo ancora indietro?
«Alla mia prima gara agli assoluti eravamo 28 tra uomini e donne di tutte le categorie, adesso sono più di 300. Sta cambiando tutto. E noi italiani siamo avanti rispetto a paesi che riteniamo super sviluppati».
La tecnologia separa o unisce i più giovani?
«È grazie alla tecnologia e alle protesi che faccio sport e che ho continuato anche in quest’anno di pandemia, su Zoom seguivo allenamenti tutti i giorni in giardino con il mio preparatore atletico e il mio allenatore. Sono molto felice di far parte di questa generazione».
La pandemia cosa le ha fatto scoprire?
«Come si sta bene a casa in famiglia. E come i piani si cambiano: io che ho sempre avuto programmi quadriennali molto precisi, ho capito l’importanza di rifare tutto e ripartire da zero. Per andare sempre avanti e migliorarsi. Se hai una bella squadra alle spalle, arrivi ovunque».
Tokyo: come ci arriva?
«Mancano 55 giorni, la preparazione sta andando bene ma non ci voglio pensare. Sarà un’Olimpiade particolare, una bella sfida, ma abbiamo il compito di andare lì e di mostrare, col nome Italia scritto pure sulle mutande, che anche con un anno di stop il mondo è andato avanti con molte cose cambiate. Dobbiamo far vedere che abbiamo lottato, anche portandoci dietro un carico di stress molto importante. Ma non vediamo l’ora di dire ai nostri compagni di squadra, cioè agli italiani che da casa ascolteranno l’Inno di Mameli, la mia canzone preferita, che ce la si può fare. Io dovrò portare la bandiera, mi dà orgoglio e ansia».
Al Quirinale ha dedicato un pensiero ad Alex Zanardi.
«Ribadisco tutto, la bandiera lo rappresenta tantissimo, con lui la mia prima bellissima Paralimpiade e lui la prima persona con disabilità che ho conosciuto e che mi ha dimostrato che il mondo paralimpico sarebbe stato qualcosa di eccezionale. È così. Lo sport ha realizzato il mio sogno e migliorato la mia vita».