ItaliaOggi, 1 luglio 2021
Periscopio
Il benessere crea malessere. Franco M. Scaldaferro, Aritmie del sentimento. Supernova, 2003.
Il personaggio più lucido della compagnia è Luigi Di Maio. Uscito dal nostro primo colloquio per un libro del 2013, ebbi l’impressione che quel ragazzo arrivato alla vicepresidenza della Camera a 27 anni avesse qualche scheggia del Dna di Andreotti. In otto anni le schegge si sono irrobustite. Preso atto che la leadership di un partito complicato come il M5s è incompatibile con il ministero degli Esteri, Di Maio si è dimesso da capo politico un anno e mezzo fa e da allora mangia popcorn assistendo al rosolamento del povero Crimi, allo scontro tra Conte e Casaleggio e alla sostanziale implosione del Movimento. Adesso bisogna ricostruirlo. Bruno Vespa. QN.
Conte nel M5s c’è da 3 anni, Grillo da 30, visto che è dall’inizio degli anni 90 che i suoi spettacoli hanno assunto un’impronta politica. Da 15 anni invece è impegnato direttamente: prima coi Meetup, poi con gli amici di Grillo, e infine, dal 2009, con il Movimento 5 Stelle. Ecco perché è impossibile che lui e i grillini della prima ora rinuncino a tutto, affidandosi mani e piedi a Conte, il quale fino al 2018 manco sapeva cosa fosse il M5s, non aveva mai partecipato a una sua iniziativa, e tuttora non è iscritto. Mauro Suttora, saggista. (Federico Ferraù). Il Sussidiario.
Come Grillo spiegava in un video del 2019 in cui si era vestito da Joker, «il caos è la più grande forma di democrazia di questo secolo e io sono il caos. Sono io il vero caos». Grillo ama governare seduto sulle macerie. Il movimento deve essere leaderless, come si dice, senza leader, perché questo appunto gli permette di gestire il caos. Alessandro Trocino. Il Fatto quotidiano.
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Romano Prodi giudicava il Cavaliere «espressione della parte peggiore del Paese, votato dalla gente che parcheggia in doppia fila e non paga le tasse». In tal modo l’avversario politico diveniva un autentico nemico, subendo un giudizio che poco si accomuna con la politica. L’avversario non è considerato una persona degna, che in politica la pensa diversamente da me, bensì «un essere moralmente spregevole». Il moralismo, non soltanto quello predicato da Enrico Berlinguer, contraddistingue l’eterna sinistra, pur se essa poi con questi individui che dichiarava repellenti ha dovuto scendere a patti. Giovanni Orsina, Università Luiss. (Marco Bertoncini). ItaliaOggi.
Il problema non è nella legge ma nella sua applicazione, come nel caso della liberazione dell’assassino seriale Brusca. A me risulta che negli Usa sugli sconti ci vadano molto prudenti e molto attenti. La tenaglia stringe solo se ha due denti: gli sconti di pena e il carcere duro. Credo che in Italia invece sia prevalente l’indulgenza. Claudio Martelli, ministro della Giustizia ai tempi di Bettino Craxi. (Claudio Bracalini). il Giornale.
Andreatta aveva ponderati motivi per volere il «divorzio» (come fu poi definito dalla pubblicistica) tra Tesoro e Bankitalia. Era stato infatti chiamato nel governo di Arnaldo Forlani, suo collega di partito, col compito di domare l’inflazione a due cifre che da anni metteva l’Italia sottosopra. Causa principale del fenomeno era proprio il denaro a torrenti che affluiva dalla Banca centrale al governo, disordinando mercato e prezzi. Calando la maschera, Andreatta si confessava antesignano del «vincolo esterno». Teoria oggi in gran voga. All’osso: l’Italia è arruffona e inaffidabile; per sottrarla ai vizi connaturati, bisogna saldamente agganciarla alle virtuose istituzioni d’oltre confine - mercati, Ue, Fmi ecc.-, evitando a ogni costo che si governi da sé. Andreatta non è più qui per gioirne, ma sarebbe soddisfatto. Oggi la lira è sparita, siamo senza banca centrale e l’Italia dipende in tutto dal consolato franco-tedesco. Giancarlo Perna, Il Ring - Cinquant’anni di risse tra i Poteri. Edizioni Guerini e Associati.
Sulla Rai, come al solito, nel Pd c’è guerra: il tandem Letta-Orlando vuole imporre nel cda una propria favorita, Francesca Bria, che lo stesso Orlando aveva già piazzato in Cdp innovazione. Rifiutata da tutti gli altri. Luigi Bisignani. il Tempo.
Sono il direttore che ha fatto più produzioni, nove dagli anni 70, insieme con Ronconi, che certo non era un reazionario, soprattutto a quell’epoca. Sono ancora sotto l’influenza di Strehler, che non soltanto conosceva la musica ed era in grado di leggere una partitura, ma perseguiva il Bello: non come fatto estetico, come necessità della vera arte. Le mie produzioni con Strehler (Le Nozze di Figaro, il Don Giovanni, il Falstaff) mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per tutta la vita e mi hanno insegnato molto. Riccardo Muti, direttore d’orchestra. (Aldo Cazzullo). Corriere della Sera.
Dice Giovanni Biondi, presidente di Indire, istituto nazionale di ricerca innovativa: «Una volta la scuola era un ascensore sociale. Oggi ci si laurea e ci si trova scombinati nel mondo del lavoro. È inevitabile che l’università declini, perché è ingessata. Se si parla di Big data, ad esempio, chi se ne occupa? L’ingegnere, il sociologo, l’economista? Nessuno è in grado di farlo da solo, serve pluridisciplinarietà. Non si possono guardare questi temi da un solo punto di vista. Noi continuiamo a formare ragionieri, ma fra qualche anno non esisteranno più». Carlo Valentini. ItaliaOggi.
Il cavaliere del lavoro Sandro Boscaini è il manager che ha scavalcato l’Atlantico, andando a produrre vini in Argentina, ai piedi della cordigliera delle Ande; che ha diffuso l’arte vitivinicola valpolicellese anche in Cina, in Ungheria, in Canada; che ha portato la produzione a 12 milioni di bottiglie e il fatturato a 65 milioni di euro; che ha rafforzato l’Unità d’Italia con le nozze fra Veneto e Puglia, fra Amarone e Primitivo di Manduria, sposando Masi con l’azienda agricola Futura di Bruno Vespa per dare vita al Terregiunte. Sandro Boscaini, produttore di vino. (Stefano Lorenzetto). l’Arena.
Nel 2002, l’economista statunitense Jeremy Rifkin profetizzava «La fine del lavoro» (titolo eloquente) per effetto della tecnologia. Oggi, però, il problema ci sembra di segno opposto. A fronte della riduzione legale degli orari di lavoro, lo smart working, le tecnologie e internet hanno finito per rendere «infinito e continuo», per tantissime persone, lo spazio e il tempo dell’impegno professionale, perché l’unica vera regola è quella del «sempre connessi». Altro che fine del lavoro, dunque. Quello che servirà regolare, per dare davvero il giusto tempo alla vita, non sarà più l’orario, ma la disconnessione. Claudia Marin. QN.
Le belle non mi sono mai piaciute. Ho amato solo le bellissime. Roberto Gervaso, scrittore.