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 2021  giugno 30 Mercoledì calendario

Intervista a Claudio Cupellini

— Un ragazzo senz’amore che vive in un mondo in cui gli adulti hanno ucciso i figli per paura e i pochi sopravvissuti in una società regredita lottano ogni giorno per la vita. Il padre, che lo ha forgiato negandogli ogni rapporto, muore e il giovane si mette in viaggio verso l’ignoto per cercare qualcuno che decifri il quaderno a cui l’uomo ha affidato memorie e sentimenti. La terra dei figli :
dal bel fumetto di Gipi al grande schermo attraverso il film di Claudio Cupellini, presentato al festival di Taormina e in sala il primo luglio. Accanto al giovane Leon De La Vallée ci sono Maria Roveran, Valeria Golino e Valerio Mastandrea.
«Sarebbe facile etichettarlo come un film post apocalittico o distopico – spiega Cupellini – ma per me è un romanzo di formazione, la crescita sentimentale di un ragazzo attraverso delle avventure, come nella letteratura che ho frequentato da ragazzino: penso a Mark Twain. Al centro c’è un tema che mi sta, per motivi biografici, proprio dentro, il rapporto tra padre e figlio, anche se il film racconta l’assenza di un rapporto. Un rapporto che è affidato alle parole di un quaderno: la memoria è l’altro grande tema, sono convinto che senza memoria non possa esserci progresso e oggi tendiamo a perderla, a sostituire i ricordi con altri a breve termine».
È una memoria scritta a mano, i personaggi sono costretti alla manualità perché il mondo che noi conosciamo non esiste più.
«La scrittura è uno degli aspetti della manualità, ma è l’unico legato alla spiritualità, al mondo delle idee. Mio figlio ha sei anni e quest’anno dovrà imparare a scrivere a scuola, la scrittura a mano è fondamentale non solo per la bellezza dell’inchiostro sulla pagina, ma perché contiene dei tempi di riflessione del pensiero, nel momento in cui tu lo metti sulla pagina, che ci aiutano a lavorare meglio rispetto a ciò che vogliamo raccontare. Se scrivi sul pc azzeri tutto con un tasto, ma è doloroso tracciare una riga su ciò che abbiamo appena scritto».
La scelta di Leon De La Vallèe?
«È stata fondamentale ed era l’aspetto che temevo di più: non avevo mai lavorato con un esordiente totale, a parte Marco D’Amore che però si era formato in una scuola di recitazione. Leon era brutalità, un talento puro e acerbo che andava smussato, con il lavoro e l’aiuto degli attori generosi che lo hanno affiancato».
Com’è stato il rapporto con Gipi?
«Con i fumetti ho un rapporto discontinuo, ma di grande amore.
Avevo letto tutto quel che ha prodotto Gipi, questa storia in particolare mi ha toccato e quando mi è arrivato il progetto ho bloccato l’altro film che stavo scrivendo per dedicarmi a solo a questo. Il rapporto con Gipi è stato il migliore possibile tra un autore che cede una sua creatura e un altro che deve farla propria evitando il pericolo di una copia banale di qualcosa di bello che c’è già stato».
Ha subito l’influenza del libro “La strada” e del film “The road”?
«Ne sono stato marchiato : non tanto dal film, ma dal romanzo di Cormac McCarthy, una delle pietre miliari della letteratura. Poi però ho cercato una mia strada personale. Lì c’è un padre solidale che accompagna il figlio verso la salvezza, qui un padre che si nega».
Con la pandemia lo sguardo verso il film è cambiato?
«Il film non ha velleità di insegnare qualcosa rispetto al comportamento degli uomini, è difficile che certe lezioni rimangano impresse, penso alla pandemia. Temo che dovremo passare attraverso altre prove prima di avere una conoscenza completa di ciò che stiamo facendo al mondo.
Credo anche che la nostra storia sia universale e prescinda dal momento che stiamo vivendo».