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 2021  giugno 30 Mercoledì calendario

A trent0anni dall’Apartheid

Trent’anni fa, a Johannesburg: questa volta a guardare erano i bianchi. Dalle finestre dei grattacieli spiavano un po’ timorosi il loro futuro. Eccolo il nuovo Sud Africa che sfilava per le strade tra canti e bandiere, sibili di fischietti e il “toy-toy”, il grido ritmato delle donne. Il lungo corteo organizzato dai sindacati neri e dall’African National Congress, il partito di Mandela, stava festeggiando la fine di un’interminabile agonia. L’apartheid, l’ultimo razzismo di Stato, terminò così, l’atto di morte lo firmarono un milione e 900 mila bianchi, il 68,7%, chiedendo con un semplice sì al presidente De Klerk di realizzare una democrazia multirazziale. Da quel giorno il Paese divenne finalmente una nazione normale, con i suoi buoni e naturalmente anche con i suoi razzisti.
La miccia della rivolta
Dopo secoli di missione divina e ben ripagata dei bianchi, un 31 per cento di afrikaner puri e duri rimasti nelle urne fu, a ripensarci, un risultato perfino modesto. Il sindacato aveva chiamato, proprio quel giorno, la gente in piazza per contrastare il nuovo bilancio del governo. Una scusa: tutti sapevano cosa si stava attendendo. E nel centro di Johannesburg tutti seduti a terra come negli antichi villaggi d’Africa ascoltarono le parole del vecchio patriarca Sisulu, uno dei padri della riscossa nera, i cartelli chiedevano lavoro e sussidi, accusavano l’austerity del governo di punire solo i neri. Quando il corteo si mosse il Sudafrica era ancora nelle mani dei bianchi; appena tre isolati dopo, il tempo per le radioline di annunciare il trionfo dei sì, era già diventato un altro Paese.
Servi e signori, schiavi e padroni: queste, in breve, sono le società fondate sull’ingiustizia, tanto più grave quanto più debole è la dottrina che la sorregge. E quella razzista è la più debole di tutte. L’abuso diventava ancor più mostruoso e inutile perché poteva esser imposto solo con la forza, la violenza, la usurpazione di ogni diritto umano.
La storia dell’apartheid è semplice, tragicamente semplice: all’inizio del Novecento gli inglesi avevano vinto una guerra, una sporca guerra coloniale, usando la fame come arma e i campi di concentramento. L’avevano vinta contro un’altra tribù bianca, i boeri, gente dura che si vantava di non aver mai letto un libro che non fosse la bibbia. Paradossi della storia, i vinti riuscirono a diventare, con la pace, vincitori. La due comunità bianche per ricucire le ferite, decisero che il prezzo della riconciliazione sarebbe stato pagato dai neri. Come e perché lo capivi leggendo la storia di Johannesburg: così breve che stava tutta incisa su una piccola targa di bronzo murata all’ingresso di una miniera abbandonata. Sulla targa si leggeva che lì, nel 1886, era stato scoperto il primo quarzo aurifero sudafricano. Il terreno valeva così poco che lo vendettero per dodici mucche.
A Johannesburg, moderna babele ancora dominata dal miraggio di fortune svelte, aggressiva, rozza, violenta con 700 mila neri torbidamente remissivi e mezzo milione di bianchi troppo sicuri di star sdraiati su un letto d’oro, l’ingiustizia era nella geografia dei quartieri, in infrangibili frontiere che il colore della pelle interiorizzava come un marchio intimo: la city con le banche i negozi gli alberghi gli uffici, che alle sei di sera restava vuota; la zona residenziale dove abitavano i bianchi in ville più o meno sontuose nascoste dietro mura a prova di assalto e da parchi avvolti da alberi meravigliosi, e i ‘’compounds’’, i lugubri quartieri dei neri. La separazione veniva ribadita quando la luce trasecolava nelle tenebre: perché la notte nelle prime due zone era riservata ai bianchi.
La separazione ti frustava quando incontravi qualche nero in tuta nelle vie già deserte, proiettato come un buio fantasma nei gorghi di luce delle vetrine ancora illuminate. Camminavano come ciechi, quei pochi provvisti di un lasciapassare per qualche ragione di lavoro tardivo, si affrettavano verso le loro residenze coatte da cui non potevano uscire nelle ore proibite se non al prezzo di essere condannati per direttissima ai lavori forzati. Gli occhi fissi in alto e ciechi sembravano a quanto era loro intorno, spavaldi grattacieli e torvi palazzoni dell’affarismo. Eccolo invece il mondo nuovo, colorato, pittoresco, felice. Ma anche disciplinato e ordinato: prima le schiere in verde nero e giallo della Anc, poi le macchie rosse del Kosatu, con la «stonatura» di qualche bianco progressista o “traditore”. Se questo era il futuro non doveva in fondo fare troppa paura. Alcuni marciavano in testa, in mano un ombrellino per difendersi dal sole, domani sarebbero entrati da padroni in quegli uffici di cristallo.
De Klerk il temerario
I bianchi guardavano, nessuno sorrideva. Eppure erano gli stessi che avevano votato sì quando era stato chiesto loro di rinunciare al passato. De Klerk, che di quella rivoluzione era stato il protagonista, un Gorbaciov meno pasticcione ma altrettanto temerario, che aveva abolito le leggi dell’apartheid e legalizzato i partiti, in tv li ringraziò per aver saputo sollevarsi al disopra del proprio destino dettando un nuovo, impegnativo decalogo: «La nostra politica è quella della divisione del potere, della collaborazione, della costruzione di un’unica nazione e di un Paese indiviso». Incredibile. Qualche volta non è retorica, funziona. Tra le due paure, restare di nuovo soli davanti al mondo e cominciare a discutere se stessi, i sudafricani preferirono affrontare la seconda. Certo vinse anche la ragione, ma soprattutto i conti di quanto sarebbero costate nuove sanzioni.
L’eroe di quelli che vedevo conquistare la città bianca percorrendola in lungo e in largo, fino a poco prima era il prigioniero numero 466/1964. Quando 26 anni prima aveva varcato la soglia dell’isola-carcere di Robben, la Sing Sing dell’apartheid, un guardiano l’aveva accolto con un invito beffardo: «Raccomandati al tuo Dio perché provi a farti uscire di qui». Ventisei anni perché quel prigioniero, che si chiamava Nelson Mandela, uscisse dalla condizione di murato vivo. Ventisei anni espropriati da una sentenza che il giudice, in toga scarlatta e parrucca come impongono gli austeri rituali anglosassoni, aveva pronunciato nella vecchia sinagoga di Pretoria trasformata in tribunale: carcere a vita per aver voluto rovesciare il governo. Un processo di Stato, sei mesi di udienze dove i limpidi riti del diritto inglese erano stati umiliati ripetutamente dalla volontà di ottenere la testa del nemico numero uno della segregazione razziale.
Fu un miracolo, quella riconciliazione. Anche i miracoli sono imperfetti. Trent’anni dopo: le organizzazioni per i diritti umani denunciano pogrom con bastoni e fruste contro gli immigrati neri al grido: andate via, ci rubate lavoro e soldi. Un successore di Mandela, Zuma, è braccato nei tribunali per corruzione e ieri è stato condannato a 15 mesi. La geografia dei quartieri, l’apartheid delle case, è rimasta eguale