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 2021  giugno 29 Martedì calendario

Intervista a Davide Ferrario

Taormina. Appartenere a «una generazione, la mia, che in effetti non ha mai immaginato di invecchiare davvero. E invece il tempo non fa sconti a nessuno». In questa confessione cruciale, che descrive il contrasto tra due fasce d’età, con quel carico di incomprensioni che certe volte sfocia in vicendevole aggressività, c’è il senso fondamentale di Boys, il nuovo film di Davide Ferrario, classe 1956, nato a Casalmaggiore, residente a Torino, autore eclettico di film nati dal guardarsi intorno, con senso autocritico e indomita curiosità: «Essere sessantenni oggi è strano, perché non ci si sente vecchi. Ma in questo c’è un pericolo: continuare a credersi giovani. Io penso, invece, che non dovremmo rincorrere chi ha meno anni di noi. Dovremmo essere fedeli a noi stessi e al nostro passato. Il che non significa rimpiangerlo con nostalgia, ma esserne dei testimoni sinceri, nel bene e nel male».
A tentare l’impresa, nella storia di Boys (che ha inaugurato il 67° Taormina Film Festival e, dal primo luglio, sarà nelle sale) sono Joe (Marco Paolini), Carlo (Giovanni Storti), Bobo (Giorgio Tirabassi) e Giacomo (Neri Marcorè). Ci provano ricorrendo al rock, «linguaggio capace, quello sì, di attraversare le generazioni». Amici da sempre, i quattro ritrovano l’occasione che potrebbe farli tornare indietro, agli Anni 70 del loro breve successo: «Pur dovendo ciascuno affrontare una sorta di “prova di passaggio”, scopriranno che la vita può tenere in serbo soddisfazioni imprevedibili, in tutti i momenti». A patto, però, di confrontarsi con altri due mondi, imprescindibili, donne e giovani (quelli veri).
Secondo lei perché i 60enni di oggi non si sentono tali?
«Credo che le ragioni siano varie. Una è che siamo una generazione che ha attraversato una fase in cui sentivamo di poter modificare le cose e questo sentimento ce l’abbiamo ancora, mentre i ragazzi di oggi non ce l’hanno. Loro sono rassegnati e forse anche eccessivamente vittime di quello che hanno intorno. Noi eravamo in tanti e loro, anche parlando in termini demografici, sono di meno. L’energia che avevamo, l’idea di scendere in piazza per chiedere le cose, adesso non c’è più, anche perché esiste la virtualità. La nostra caratteristica è esserci portati dietro per tutta la vita la lezione appresa da ragazzi».
Questo, secondo lei, è sempre salutare?
«Gli esiti possibili sono due. Quello negativo è la nostalgia, il pensare “noi eravamo i più fighi”, l’altro, positivo, che abbiamo cercato di raccontare nel film, è la consapevolezza che si possa sempre ricominciare, anche a 65 anni».
Qual è, dal suo punto di vista, la generazione che più ha marcato la differenza?
«Penso che il vero confine sia quello che separa le generazioni passate e quelle che si sono succedute dagli Anni 90 in poi. Il protagonista di Tutti giù per terra è lo spartiacque, quando ne ragionavamo con Giuseppe Culicchia e con Valerio Mastandrea, la cosa di lui che più mi dava fastidio era il fatto che non avesse voglia di lottare, era incartato e disagiato. Da allora in poi le cose non sono migliorate, il non sentirsi parte di niente è aumentato. E se, a tutto questo, si aggiungono il senso di generale minaccia che circonda la società occidentale, la disoccupazione giovanile, la digitalizzazione, ecco che la spaccatura è diventata sempre più grande».
«Boys» è un film molto autobiografico?
«Succede spesso che i film che ti sembrano più personali, poi magari lo sono di meno e viceversa. Stavolta sì, alla fine in Boys c’è un pezzo sincero di quello che oggi penso».
La musica ha un ruolo fondamentale. Come l’ha scelta?
«Il progetto prevedeva fin dalla nascita la presenza di Mauro Pagani. La prima volta che abbiamo ragionato sulle musiche del film, Pagani ha tirato fuori 4 canzoni che aveva scritto, a suo tempo, con l’impostazione di un trentenne. A quel punto ho capito che la colonna sonora c’era già e con essa l’identità del gruppo, che sarebbe stata rock-blues».
Ha costruito la sua carriera su film sempre diversi. Un pregio, e un rischio. È così?
«Sì, lo sperimentalismo è stato il filo rosso, sono andato sempre a rompere le palle qua e là. Penso che un regista debba fare così, io non riuscirei mai a fare un film uguale a quello precedente. Una scelta che, sinceramente, rispetto alla critica è anche un boomerang. I critici preferiscono quelli che fanno sempre la stessa cosa, e invece io penso che ogni storia abbia la sua maniera di essere raccontata e che il regista si debba mettere al servizio di questo».
Il cinema è destinato a cambiare. Secondo lei come?
«La prima cosa drammatica è che la digitalizzazione del cinema ha invertito il rapporto tra pubblico e narratore. Prima c’era un patto, l’autore sapeva che lo spettatore, entrando in un cinema e pagando un biglietto, sarebbe stato per due ore a sentire la sua storia. Adesso questo non esiste più. I film li vedi ancora, ma li puoi fermare per fare un’altra cosa, ti puoi distrarre per duemila motivi diversi. Oggi il monologo di Amleto lo puoi ascoltare pure in cucina».
Che cosa pensa delle serie e dei film per le piattaforme?
«Da quello che sento in giro, dai colleghi e anche dagli attori, mi sembra che lavorare per le piattaforme implichi una grande diminuzione della libertà. Se si pensa alle serie, anche quelle bellissime, non vengono mai in mente i nomi dei registi. Si ricordano solo quando a girare è un autore già famoso, venduto come brand. E poi ci sono un sacco di controlli, interventi sulla fotografia e sul montaggio. Prima il regista era l’unico che poteva fare le cose. Ora ci sono dei tecnici, e non ci si può fare niente». —