la Repubblica, 28 giugno 2021
Napoleone da collezione
Viaggiano, sostano, scompaiono e riemergono»: degli oggetti diciamo che sono inanimati, ma è vero il contrario, tanto più se si caricano di valore simbolico, se entrano nella dimensione della devozione, del culto religioso o feticistico. Le storie che racconta Arianna Arisi Rota nelle pagine di Il cappello dell’imperatore (Donzelli) implicano curiose traiettorie: quelle che, dopo la morte di Napoleone – e ancora prima, dall’indomani di Waterloo – cimeli, reliquie, tracce materiali della sua esistenza hanno percorso. Finendo in mani imprevedibili e ossessive, non necessariamente benevole, se è vero che «gli inglesi giocano un ruolo importante per la patrimonializzazione del culto del loro più grande nemico». D’altra parte, della mole di oggetti che un imperatore, ancorché in declino, possiede, si può avere un’idea mettendo a fuoco il numero di bauli in viaggio verso Sant’Elena, precedendo l’arrivo di Bonaparte. Quattrocento, per un peso di circa cinquecento tonnellate. Il saggio di Arisi Rota, scritto splendidamente, contiene decine di romanzi potenziali: uno, volendo, sulle tabacchiere, uno sugli ombrelli e i parasole, un altro sul set personale da campo di igiene dentale – cosa a cui Napoleone pare abbia sempre tenuto parecchio. Ma il romanzo dei romanzi è quello sulla «varia umanità» che, per curiosità morbosa, ammirazione, vantaggio economico, furia collezionista, ha tentato di impossessarsi di reperti napoleonici. Secondo alcune fonti, dalle lenzuola del letto di morte, macchiate di sangue, vengono ricavati brandelli- souvenir. È il primo capitolo di una articolata vicenda i cui protagonisti sono eredi, medici, funzionari privi di scrupoli, impegnati a capitalizzare il mito. A cominciare dalla maschera funebre, la cui intensità è testimoniata da contemplazioni estatiche: «Mi trovavo allora quasi in ginocchio, contemplando quel sardonico riso il quale deve dannare ogni inglese in punto di morte», racconta l’incisore Calamatta.
Tra imperitura fascinazione e intermittente nostalgia, gli oggetti attraversano i decenni; e arrivano fino a noi: se il cappello presumibilmente usato a Waterloo viene battuto all’asta a Lione nel giugno di tre anni fa per 350 mila euro, e gli stivali probabilmente usati a Sant’Elena per 117.208 euro, da Drouot a Parigi, due anni fa. Ciocche di capelli, calchi (presunti) delle mani, barba rasa, parti di organi interni, il vero, il falso, il verosimile, tutto concorre a una ambigua musealizzazione, a un merchandising non esente da implicazioni politiche. «La capacità di riattivarsi politicamente a distanza di decenni – scrive Arisi Rota – si conferma dunque una caratteristica del mito napoleonico, vero fiume carsico». Che nel primo centenario della morte dell’imperatore – 1921 – fa letteralmente decollare il collezionismo napoleonico. Alle American Art Gallery di New York vengono messi all’asta i pezzi di una «notable collection» di un avventuriero di origine russa «divenuto uno dei più attivi agenti segreti doppiogiochisti del periodo tra fine Ottocento e gli anni Venti, coinvolto in tentativi di colpi di Stato e spy game ad alto rischio nella Russia post-rivoluzionaria». C’è di tutto: un orologio d’oro, un set di coltelli d’argento, un pezzo del drappo di seta che copriva il sarcofago. Oggetti che uno come Stanley Kubrick, nella sua fase ossessiva di studio preparatorio per un film su Napoleone, avrebbe volentieri collezionato. Finendo sommerso, scrive l’autrice, dalla propria stessa ricerca: circa cinquecento volumi, schedari, taccuini, immagini; e verifiche storiche al limite della paranoia: il regista schedò un esemplare di chiodo utilizzato per ferrare i cavalli nei climi gelidi e avere la certezza che i cavalli usati nella campagna di Russia non fossero ferrati in modo congruo per l’inverno.