la Repubblica, 28 giugno 2021
Intervista a Paolo Gentiloni
BRUXELLES – «Il Recovery arriva al momento giusto. La ripresa è in atto. L’ottimismo è giustificato. L’Unione europea avrà almeno per i prossimi due anni una crescita economica tra il 4 e il 5 per cento. È una cosa senza precedenti». Dopo l’approvazione di dodici Piani nazionali da parte della Commissione, tra cui quello italiano, il commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni sembra tirare un sospiro di sollievo. L’annus horribilis – iniziato a marzo del 2020 – potenzialmente si chiude con la prima tranche di soldi del NextGenerationEu in arrivo tra un mese. Ma il lavoro non è affatto finito. «E molto dipende da noi italiani, tutti ci stanno a guardare. Abbiamo il debito più alto». Per questo, Gentiloni immagina una sorta di solidarietà tra tutte le forze del Paese: «L’intera classe dirigente ne deve essere consapevole. Con Draghi siamo fortunati. Servirà unità. Il futuro? Mi limito a dire che in questa fase la circostanza è favorevole». Ma anche l’Unione dovrà cambiare. In particolare il Patto di Stabilità e le sue regole su debito e Pil «dovranno essere modificate».
Le incognite in grado di compromettere questa prima ripresa non sono però svanite.
«Certo, bisogna fare attenzione alle catene di produzione e al prezzo di alcune materie prime che scarseggiano. Alcuni settori devono riprendersi del tutto. Esiste la possibilità di un rialzo dei tassi di interesse americani ma qui in Europa l’inflazione appare solo temporanea. Insomma, il quadro resta positivo. C’è tanto risparmio accumulato e il lockdown è stato l’occasione per innovare molte aziende e avviarle verso la digitalizzazione».
Il Covid però non sembra ancora sconfitto. La variante Delta in Gran Bretagna semina contagi. Non è un ostacolo alla ripresa?
«È chiaro che servono cautela a vaccini. I dati che si registrano in Inghilterra e in Israele vanno osservati con cura ma dimostrano l’utilità dei vaccini. E l’economia che ormai si era abituata a convivere con l’epidemia crescerà grazie ai vaccini».
Nelle ultime due settimane sono stati approvati dalla Commissione 12 Pnrr. Sono sembrate approvazioni facili.
Anche in riferimento all’Italia. La Commissione è diventata più buona, i Paesi più bravi o è l’effetto di una situazione eccezionale?
«L’approvazione finale ci sarà a luglio all’Ecofin. L’ok della Commissione è il risultato di quattro mesi di dialogo. Migliaia di pagine sono state scambiate. Sono stati compiuti lunghi tratti di strada per arrivare a questo obiettivo. In Italia si è iniziato a dicembre per arrivare al traguardo».
Da luglio però il rapporto tra governi nazionali e commissari cambierà molto. In Italia sarete vissuti come dei “valutatori” permanenti?
«La natura di questo programma consiste nel fatto che la Commissione ha stretto un patto con i 27 Paesi. L’Italia da sola percepirà un terzo di tutti i sussidi e prestiti. È un patto consensuale, ma vincolante. È legato a centinaia di obiettivi e scadenze. Le erogazioni quest’anno saranno il 13 per cento del totale. Nel 2022, invece, l’Italia riceverà 50 miliardi. Quasi un quarto dell’intero ammontare di finanziamenti. Ma, appunto, i soldi non sono una imprevista fortuna.
Sono legati al raggiungimento di obiettivi e scadenze di questo patto vincolante».
Avremo cioè una sorta di esame ogni sei mesi?
«Non ci saranno scadenze fisse e uguali per tutti. Anche il collocamento dei bond è graduale.
Magari ce ne saranno di più nel 2022 e nel 2023. Quindi ci sarà un esame in continuazione. Fino al 2026».
Per questo rispetto sostanziale servirà un’efficienza governativa.
I nostri esecutivi in passato non sono stati proprio dei campioni da questo punto di vista.
«Sì, siamo fortunati perché c’è una persona come Draghi e una maggioranza di una ampiezza inusuale. Ma è l’insieme della classe dirigente che deve essere consapevole di quanto sia ambiziosa l’operazione. Anche in Parlamento. Ci vuole una unità fuori dal comune tra forze politiche, sociali, enti locali.
Dobbiamo scalare una vetta, non nuotare su un mare di soldi europei. Vale per noi e per gli altri».
Per come lo sta dicendo, un patto tra tutta la classe dirigente, sembra che il governo Draghi sia una sorta di modello anche per il futuro. Ma al più tardi si vota nel 2023.
«La leadership di Draghi è un bene per il Paese. Quel che succederà in futuro dipende dalla politica italiana e dagli elettori».
Lei parla di vetta. Ma se tra 18 mesi rientra in vigore il vecchio Patto di Stabilità, come si può pensare di raggiungerla davvero?
«Rilanceremo la revisione del Patto in autunno. Dobbiamo cercare un consenso maggioritario per delle regole modificate. Bisogna tenere conto della situazione attuale. Il debito pubblico dell’eurozona è al 102 per cento. Il Patto di Stabilità e Crescita dovrebbe diventare il Patto di Crescita sostenibile e Stabilità».
Una rivoluzione rispetto alla logica di Maastricht.
«Certo. Ma noi cosa vogliamo quando parliamo di Recovery? Solo un rimbalzo? Probabilmente già lo abbiamo. Vogliamo tornare alla “normalità”? Oppure cerchiamo di uscire da 20 anni di crescita striminzita per una crescita duratura più verde e digitale? Non sarà certo facile. Le tensioni tra i Paesi non è che sono sparite. Ma sono ottimista sulla possibilità che la Commissione avanzi una proposta e che si arrivi al consenso necessario».
Ma se il debito è al 102 per cento che senso ha la regola del Patto che lo fissa al 60%?
«Non credo che si potranno modificare i Trattati e comunque non è compito della Commissione proporlo. Capisco l’argomento sul piano culturale. Il 60% era la media del debito all’epoca, appunto, dell’accordo di Maastricht. Da allora il debito è cresciuto per tutti e costa meno perché i tassi sono più bassi. A trattati invariati, si possono però modificare le regole sui percorsi di rientro dai debiti e le modalità di investimento rispetto alle grandi transizioni green e digitale».
Quindi più tempo e calcolo diverso per quanto riguarda gli investimenti?
«Le regole devono essere realistiche, altrimenti non sono applicabili. E devono essere utili al futuro dell’economia europea».
In queste discussioni a volte si ha la sensazione che l’Europa perda di vista un obiettivo fondamentale: il lavoro. La pandemia è stata una falce. La tutela dell’occupazione non dovrebbe essere un obiettivo prioritario?
«Certo che lo è. Io sono orgoglioso del fondo Sure, che ha difeso 30 milioni di posti lavoro in 19 Paesi.
Sono stati spesi già 100 miliardi.
Senza precedenti. L’Italia ne ha ricevuti 27 in più per la Cig. E grazie ai tassi bassi il nostro Paese ha risparmiato circa quattro miliardi».
In questa stagione di cambiamento il prossimo voto in Germania sembra un’altra incognita.
«Il voto segna la conclusione della leadership di Angela Merkel.
L’auspicio è che il prossimo governo continui nella scelta fondamentale di questi anni: una Germania europea e non un’Europa tedesca».
Da quando è a Bruxelles c’è mai stato un momento in cui ha pensato: stavolta non ce la facciamo?
«Nei primissimi giorni della pandemia. Ricordo ad esempio l’affanno per eliminare il divieto di esportare materiale medico».
E quando ha tirato un sospiro di sollievo?
«Quando ho capito, tra aprile e maggio, che avremmo fatto il contrario della crisi precedente.
Non troppo poco e troppo tardi, ma risposte forti e comuni. Certo, per il rilancio c’è molto da fare. E molto dipende da noi italiani. Abbiamo il debito più alto e utilizziamo i prestiti del Recovery. Quindi ci serve una crescita forte e duratura, e prudenza nella spesa corrente.
Tutti ci stanno a guardare».