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 2021  giugno 27 Domenica calendario

I 60 anni di Carl Lewis

Il figlio del vento è andato talmente veloce, ha saltato così tanto oltre da superare il proprio mondo. E non è mai più riuscito a sintonizzarsi, come se avesse bruciato lo spazio e messo troppa distanza tra sé e gli altri. Carl Lewis, uno degli sportivi più famosi al mondo non è mai stato davvero universalmente amato, nonostante i 9 ori olimpici e il talento sfrenato.
I suoi 60 anni forse gli daranno tregua, non è sicuro, ma di certo concedono a noi la possibilità di guardarlo come non abbiamo mai fatto prima, con un certo distacco e pure una nuova simpatia per quella sua voglia di strappare e poi ritrovarsi quasi sempre solo.
King Carl avrebbe un desiderio per il compleanno che cade il primo di luglio: «Se potessi tornare indietro rifarei tutto nello stesso modo, se avessi a disposizione i social, come succede agli atleti oggi, avrei pure l’occasione di spiegare perché in tempo reale». Lo ha detto in un recente podcast in cui ha raccontato la sua splendida famiglia, la sua fortuna e il suo limite: non essere capito. Tanto elegante da risultare altero, tanto dotato da non avere freni, borioso, certo, ma sempre portato a sembrare più antipatico di quanto non sia.
Cresce in una famiglia di sportivoni e si nutre di competizione e orgoglio. I suoi genitori sono entrambi i primi del loro albero genealogico ad aver frequentato il college e per questo ci restano dentro. Entrambi insegnanti ed entrambi responsabili di squadre di atletica. Non altissimo livello ma quanto basta per mettere il fulcro dei figli su una pista. Sono convinti che lo sport sia anche un mezzo di emancipazione sociale, hanno imparato le lezioni di Martin Luther King, vogliono che i loro ragazzi abbiano il meglio e sanno che per entrare nelle scuole prestigiose è utile far parte di una squadra. La madre è stata ai Panamericani e portare la maglia degli Usa le ha fatto capire che l’inclusione passa da lì, dal condividere le giornate di allenamento, gareggiare, viaggiare, conoscere. Carl Lewis assorbe questa visione e la sposa, come i suoi tre fratelli, uno diventerà giocatore di calcio per i Cosmos, la sorella vincerà un bronzo nel lungo ai Mondiali del 1983: tutti sono ben felici della comunità in cui stanno. Dell’effetto che fa.
Da bambino Lewis viene battezzato «shorty», rispetto ai coetanei è basso, poi, di colpo, nell’estate dei 15 anni, cambia e inizia a stupire. Salta in lungo con una facilità impressionante e una tecnica che disegna una traiettoria verso l’alto: secondo molti così perde centimetri e invece il metodo diventa la spinta extra, gli dà la possibilità di muoversi in volo e di planare sempre più in là. Il salto in lungo per gli Usa è la prova della grandezza, terreno di Jesse Owens, mito che Lewis conosce mentre è all’università, record stupefacente di Bob Beamon che arriva quando Carl ha dieci anni, mentre è ancora shorty e nessuno pensa lui possa arrivare a certe quote. Invece quell’impresa gli mostra la strada. Il lungo diventerà la disciplina in cui eccellere e quella con cui prendersi il pianeta Olimpiade con quattro ori consecutivi dal 1984 al 1996, anno in cui il 35enne Lewis saluta lo sport per poi concedersi una coda promozionale. Con il salto in lungo definisce la perfezione: 65 gare senza mai perdere, un primato indoor che resiste ancora, dal 27 gennaio 1984 (8, 79 metri) e la sfida più bella nella storia dell’atletica che però lui ha perso. Siamo alla finale dei Mondiali di Tokyo 1991, Lewis vince i 100 metri con il tempo di 9"86, record mondiale e vuole il lungo, vuole la firma sulla sua specialità. Piazza la più straordinaria serie di salti mai visti in una stessa giornata: 8. 68, nullo, 8. 83 ventoso, 8. 95 ventoso, 8. 87, 8. 84. E Mike Powell lo batte grazie al clamoroso 8. 95 che cancella l’incredibile primato di 8. 90 ottenuto da Bob Beamon ai Giochi di Messico’68. Il commento di Lewis è un concentrato di frustrazione: «L’ha semplicemente fatto».
Tutta la vita a correre senza mai togliersi di dosso il giudizio, le occhiatacce e ogni successo rimasto nella storia per qualche stranezza. Già qualificato ai Giochi del 1980, li deve salutare per il boicottaggio «vedevo colleghi disperati, io pensavo "tanto la mia occasione è il prossimo giro". Ero convinto la vita sarebbe stata un’eterna olimpiade». E aveva ragione. Nel 1984 entra in zona Owens con quattro ori: 100, 200 metri, 4x100 e ovviamente salto in lungo. Ora non condivide più solo la terra di nascita, l’Alabama, con il nome più adorato dello sport americano, ma pure la gloria. A Los Angeles prende una bandiera enorme e fa un giro di pista da Mr America, oggi è una splendida foto, allora era eccesso di nazionalismo. Ed è qui che re Carl adesso pare meno supponente. Chiama un’imprevista empatia. Immaginatevelo: padrone dei Cinque Cerchi, su un altro pianeta, soddisfatto, sicuro di non avere rivali, di essere super, di rappresentare gli Usa meglio di chiunque altro e gioca in casa, negli Stati Uniti che quattro anni prima non sono andati a Mosca e ora si rifanno con gli interessi, in California. Lui è la faccia della rivincita e, per come è messo il mondo in mezzo agli Ottanta, sarebbe anche quella dei buoni, dei garanti delle libertà e invece, fischi. Il suo gesto non piace, è presuntuoso, le sue parole danno ai nervi, «manca di umiltà». Gli scappano frasi su questi toni: «Il mio obiettivo è diventare miliardario, non ho voglia di lavorare». E sono sparate perché lavora eccome, tutta una carriera insieme con il tecnico che ha incontrato da universitario, a Huston: Tom Tellez, quello che gli dice subito «tu andrai ai Giochi ma quelli sono problemi tuoi, io devo farti diventare un buon atleta e un grande studente». Lewis ancora lo cita e ringrazia perché quel signore lo ha obbligato a essere furbo e attento.
Carl Lewis ha spostato l’atletica dal livello amatoriale al professionismo, ha attirato gli sponsor, la pubblicità, ha posato per la Pirelli in uno dei manifesti più famosi che ci siano, ha superato dei confini che gli altri neanche vedevano. Nel 1988 ha riacciuffato l’oro dei 100 strappato dal dopatone Johnson. Poi si è scoperto che il canadese non era nemmeno il più marcio, era solo il più ingenuo ed è pure venuto fuori che Lewis qualche test lo aveva saltato, qualche dubbio lo lasciava. Quando lo hanno trovato positivo è stato poi scagionato e questo resta, pure su questo argomento le sue massime ambigue non hanno aiutato.
Ha creato un marchio di abbigliamento sportivo, è entrato in diverse canzoni di famosissimi rapper, ha dato il nome, senza saperlo, a Lewis Hamilton, il pilota di Formula 1. Ha seppellito l’oro dei 100 metri vinto a Los Angeles con il padre e promesso «ne porterò a casa altri». Ogni ostentazione si è poi rivelata una reale possibilità per lui, che si muoveva a un’altra velocità. E a furia di essere il migliore, ha deciso di non avere più pari.
Ha orbitato intorno a una squadra di Nba e una di Nfl, senza poi giocare davvero, si è candidato come senatore democratico, ha aperto una scuola dove lui, guarda caso, ci mette la faccia e suoi ex avversari, vedi Leroy Burrell, fanno gli allenatori. Ha ammesso di stare simpatico a pochi. Spallucce. Ha sempre dato la colpa ai troppi successi: chi è superiore non piace. Poi è arrivato Usain Bolt e le sue certezze sono crollate. Evidentemente si può oltrepassare la barriera del suono senza diventare sordi, si può continuare a stare tra le persone anche dopo essere sfrecciati oltre record inimmaginabili.
Con Usain ha ingaggiato un duello a distanza, poi ha ceduto: «Sì, piace a tutti, però lui è giamaicano». In effetti, per lui portare una bandiera gigante è più semplice.