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 2021  giugno 27 Domenica calendario

Intervista a Emiliano Salci

Emiliano Salci è designer, architetto di interni, collezionista di oggetti e mobili, ma anche appassionato di colori, arte e di quella pittura che si trova nella sua città natale, Arezzo, patria di Piero della Francesca.
Cosa ha studiato ?
«Al liceo ho fatto studi classici, ma credo che tutto sia iniziato stando a contatto, sin da piccolissimo, con mio padre che aveva un negozio di arredamento di cui ho preso poi io le redini. Una grande spinta è stata la voglia di conoscere e vedere il bello, la moda, l’arte classica - con Piero della Francesca, Cimabue, Giorgio Vasari - ma anche quella contemporanea, che da ragazzo sentivo come una sorta di gioco. Il design è sempre stato importante. Ricordo che già a 14 anni andavo al Salone del Mobile con mio padre: erano gli anni ‘80-’90 ed era un momento meraviglioso per il design. I grandi maestri come Vico Magistretti, Achille Castiglioni, Mario Bellini diventavano quasi padroni della città».
Quando si è trasferito a Milano?
«Intorno al 2000-2001, anni in cui il designer a Milano aveva ancora un’identità importante. Sono venuto per curare la direzione artistica per Cappellini. Seguivo i loro allestimenti, le campagne pubblicitarie, la rete distributiva a New York, Milano, Parigi, gli eventi. Era un momento molto fiorente per designer all’epoca giovanissimi come Jasper Morrison, Tom Dixon, Marc Newson, i fratelli Bouroullec. Grazie all’esperienza da Cappellini, ho capito che stavo cercando una direzione artistica che dal design comprendesse anche la moda, l’arte, le cose vecchie».
Incontra Britt Moran e decidete di creare Dimorestudio: annoiati della filosofia minimalista, avete prima introdotto il concetto di memorie antiche poi il colore.
«Già dal nome che abbiamo scelto, dimore, volevamo trasmettere un’idea potente di passato: case di un certo tipo, storiche e antiche, con stanze che si susseguono, magari con arazzi, stucchi: reputavamo superata la formula di un design e di un’architettura senza un’idea di storia vissuta o di viaggio. Magari anche attraverso degli sbagli: abbiamo imparato che qualcosa di canonicamente brutto, se messo nel contesto giusto, può dare calore e umanità a una stanza. Dior e Fendi ci hanno cercato proprio per ricreare questa tipologia di ambienti: familiari e ospitali, dai colori attraenti, con divani comodi dove nessuno ha paura a sedersi».
Cos’è in fondo un negozio di lusso, una casa, un albergo, se non una scenografia?
«Proprio così. Britt e io ci siamo sempre definiti interior designer, ma viviamo ogni progetto come se fosse un film. Tutto deve essere armonioso».
A proposito di armonia: c’è una casa a Milano, Villa Necchi Campiglio, che per voi è un’icona, in cui antico e moderno coesistono.
«Sì, per noi, Piero Portaluppi (l’architetto che l’ha progettata, ndr) è un esempio assoluto. Trovo quella villa geniale e avanguardista. Ma non è stato solo Portaluppi a far coesistere antico e moderno: Gio Ponti, Ignazio Gardella, Osvaldo Borsani hanno raggiunto il modernismo e il vero contemporaneo. Il design attuale è un’eredità del passato. Il grosso, possiamo dirlo, è già stato fatto».
Però il design cambia. A voi è capitato di cambiare radicalmente il modo di lavorare?
«A noi piace il cambiamento, così come avere una visione ben chiara. È vero, cambiano i tempi, gli spiriti e i progetti, ma il Dna rimane lo stesso».
Durante la pandemia lei si è costruito il suo appartamento. Da cosa è partito?
«Dalle luci e dai colori. Abbiamo inserito oggetti che hanno sempre viaggiato di casa in casa, da trasloco a trasloco. Ci sono anche cose nuove. Desideravo una casa più scura, in ombra. Avevo voglia di colori più sobri: cammello, marrone, i colori della terra, qualche pizzico di bronzo».
È un po’ un ritorno alla Toscana della terra di Siena?
«È vero! È un tocco classico che sto vedendo molto nel cinema e nella moda. Secondo me questa pandemia ci ha riportato con i piedi per terra: cerchiamo di più un divano senza tempo che ci duri per sempre; oppure un cappotto bello. L’idea è comprare oggetti a cui rimanere affezionati, che ci accompagneranno tutta la vita. Creare un mix calibrato che spazia dall’800 al 900. La mia casa è piccola e ha un po’ di tutto. Ci sono pezzi di Piero Bottoni, o un divano di Magistretti, ma anche arredi più anonimi».
Quale stanza preferisce?
«Il salotto, dove bere un caffè, leggere un libro, accogliere. Siamo stati fermi per il lockdown e il nostro lavoro è molto fisico e tangibile, quindi lavorare con i mezzi digitali è difficile».
A lei non piace Internet?
«Non per lavorare. Io una casa la devo vedere: voglio notare le ombre, le luci, come si muovono le persone, se il pavimento scricchiola».
Di solito come lavorate? Cercate di capire quello che vogliono i vostri clienti?
«Siamo aperti all’ascolto. Chiediamo ai clienti se amano cucinare o leggere, oppure se amano stare tutto il giorno a piedi nudi - e quindi potrebbero volere la moquette. Creiamo le case per i clienti, non per noi. Detesto le case fatte dall’architetto che ti dice anche dove mettere il posacenere».
Esiste ancora la moda?
«C’è un grande restyling, un assemblaggio di diversi stili. Ma non c’è una vera innovazione, stile Romeo Gigli o Armani».
Quali sono gli elementi imprescindibili di una casa?
«Una bella luce e una bella texture alle pareti - non solo un colore. Di solito amo variare: una stanza può avere una boiserie di legno, un’altra può essere imbottita e un’altra ancora dipinta, ma l’importante è che abbia una consistenza oltre il colore. Senza dubbio deve avere dei mobili a cui si è affezionati e che ci si porta dietro di casa in casa. Io lo dico sempre: preferisco lo sbaglio e l’emozione alla perfezione».
È ancora appassionato del suo lavoro?
«Sì, ma è dura senza fiere. Mi manca la mondanità e mostrare dal vivo il mio lavoro».
Milano rinascerà?
«Sì. Abbiamo tutti gran voglia di tornare a vivere. E magari di fare follie».