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 2021  giugno 27 Domenica calendario

Che fine ha fatto Luc Merenda

In tanti lo hanno riscoperto durante le indigestioni di vecchi film, chiusi in casa, durante i confinamenti: Luc Merenda, l’attore (la star), che negli anni Settanta interpretava il commissario nei polizieschi italiani, eroe inflessibile dalla bellezza disarmante. Italoamericano, con quel nome lì? No, Luc era ed è francese. «Ma francese non mi sono mai sentito», lo dice subito, ora che lo abbiamo ritrovato. Ha avuto mille vite: «Ho anche sofferto tanto, da scemo, ma mai da mediocre». Dopo il successo incredibile riscosso in Italia, era ritornato a Parigi, dove per una trentina d’anni ha fatto l’antiquario (esperto di mobili asiatici e arte africana). Ora, a 77 anni, colpo di scena, vive di nuovo a Roma. «Definitivamente», è la sua promessa. Anche a sé stesso.
Luc è ancora bello, un vecchio bello. Ma non se lo vuole sentir dire. «Quando ero famoso – racconta - non rivedevo mai i film che avevo girato. Mandavo qualcuno di fiducia. Gli chiedevo se in certe scene ero riuscito a dare quello che volevo». Ora sta scrivendo un libro su di lui e gli anni Settanta, con il critico cinematografico Steve Della Casa. «E allora, li ho dovuti rivedere tutti. Ne ho fatto un’indigestione. Certi mi sono piaciuti, altri meno». I polizieschi italiani di quei tempi erano considerati di serie b. Poi sono diventati cult, grazie al solito Quentin Tarantino. Erano racconti sociali di un’Italia corrotta, violenta e politicizzata. In «La polizia accusa: il servizio segreto uccide» (1975) «si parlò per la prima volta dei servizi segreti deviati – ricorda Luc - . E poi incredibile fu «Italia: ultimo atto?», del 1977, dove si narra il sequestro di un uomo politico, pochi mesi prima di quello di Aldo Moro. Lì ero un terrorista: finalmente, non ne potevo più di fare il poliziotto».
Luc e le sue vite. È nato nel 1943, mentre sua mamma passeggiava accanto ai binari della ferrovia, subito fuori Parigi, sotto un bombardamento tedesco. Poi, dopo il conflitto, la sua famiglia si trasferisce ad Agadir, in fondo al Marocco. La spiaggia, il caldo, la strada: «A dieci anni guidavo già, una Fiat 600 Multipla, il destino: portavo a scuola tutti i ragazzi del quartiere». Ai 14 ritornano a Parigi: «Mi dicono: questo è il tuo Paese. E io dico di no. Parigi è bella, ma non me ne frega nulla. Ho un accento diverso in francese, si burlano di me. E io li prendo a testate, lo avevo imparato ad Agadir». Da adulto, inizia a lavorare come pubblicitario tra Parigi e Bruxelles (a un certo momento sbuca pure sulle barricate del maggio ’68). Dopo se ne va a New York: per vivere fa il modello e con successo. Rientra in Francia e diventa attore. Nel 1965 era già capitato a Roma. A bordo di un’imbarcazione, con un amico del padre, vagavano per il Mediterraneo e a Fiumicino avevano deciso di risalire il Tevere. «Una pazzia, a un certo momento si è rotta l’elica. Abbiamo preso un taxi per raggiungere la città. Stupenda, sotto le luci della notte. Mi sono detto: è casa mia».
Della capitale italiana non si dimenticherà mai e vi tornerà nel 1971 a fare dei provini. «Ci sono rimasto per 14 anni. Sono rientrato in Francia solo per i funerali di mio padre e di una zia». Ma il filone dei polizieschi entra in crisi. Lui fa un po’ di commedia. Poi nasce sua figlia e la madre è francese e antiquaria. Torna a Parigi. Appassionato, si mette a viaggiare tra il Giappone e la Cina, a caccia di mobili d’eccezione. Fino all’ultima svolta: «Ho lasciato tutto e mi sono trasferito a Roma, da solo». Vive a Trastevere. «Cammino per la città e sono felice. Guardo le terrazze, amo i profumi. In Italia le donne sono belle con naturalezza. E non lo dico perché ho voglia di scoparle: anche quando ero giovane, non ero un maniaco del sesso. Mi piacciono la semplicità e l’autenticità che ci sono qui. Mi fanno stare bene». Tenero e ruvido, brusco e gentleman, Luc ha un’insicurezza salutare per chi è stato una star. «Anche quando ero famoso, non sopportavo la mia faccia. M’imbarazzava guardarmi. Mi sembrava una sorta di esibizionismo».