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 2021  giugno 27 Domenica calendario

Biografia di Serena Bortone raccontata da lei stessa

Le cose che abbiamo in comune sono 4850, così dice l’incipit d’una nota canzone di Daniele Silvestri, eppure la conversazione telefonica con Serena Bortone, in un torrido tardo pomeriggio a cavallo tra le rispettive vaccinazioni anti Covid, parte un po’ in salita.
L’intervistatrice sperava fosse l’occasione giusta per far luce su una questione che da tempo l’incuriosisce: i tacchi a spillo che, residuali quasi ovunque nel mondo reale, trovano una loro gloriosa rivincita ai piedi della donna che lavora in televisione, sia essa conduttrice o ospite di talk show.
L’intervistata: «Vuoi parlare di tacchi?» (alto tasso di punti interrogativi percepiti).
Nonostante di scarpe un po’ si parli, è insomma subito evidente che non sarà questo il giorno in cui si lancia la sfida campale per il diritto alla calzatura femminile comoda in tv. Bortone si dichiara, nell’ordine: una taccara convinta (certo, fuori servizio predilige il più pratico rocchettone); una vera e propria «Imelda Marcos de noantri»; una che, sostengono le amiche, «si percepisce alta un metro e ottanta». Dice che il tacco a spillo «è una piacevolissima frivolezza e uno spazio di libertà per chi, come me, ha costruito la carriera sulla testa». Ricorda, oltretutto, che quest’anno ha condotto molto da seduta.
Reset. Ricominciamo.
Serena Bortone è giornalista, autrice televisiva, conduttrice, femminista. Cresciuta professionalmente nella Rai 3 di Angelo Guglielmi, per anni al timone di Agorà, nella stagione televisiva appena terminata è stata la mattatrice del pomeriggio di Rai1 col fortunato Oggi è un altro giorno (programma riconfermato). Non ho sbirciato solo le sue scarpe, ma anche una lista delle sue più recenti letture, e m’ha colpita che tra queste ci fosse Il dramma del bambino dotato di Alice Miller, un vecchio saggio che è tra le pietre miliari della psicoanalisi sull’infanzia.
Sei stata anche tu uno di quei bambini cresciuti con l’ingombrante capacità d’intercettare i bisogni inconsci degli adulti e di adattarvisi ancor prima che venisse loro richiesto?
«Sì, è una storia che mi appartiene. Sono stata una bambina performer, estremamente permeabile tanto alle informazioni quanto agli altrui sentimenti. Molto sveglia, diciamo. Non una genietta eh, non voglio sembrare mitomane, ma a due anni e mezzo seguivo mamma nei negozi e chiacchieravo con le commesse, a cinque ho iniziato la scuola, a nove ho vinto un concorso di pianoforte. Mi riconosco nelle infanzie caratterizzate dal dover sempre dimostrare di essere bravi. Me lo chiedevano gli adulti, o era la mia natura? Non saprei, magari sono vere entrambe le cose. In ogni caso, cresci pensando che produrre buone prestazioni, anche relazionali, ti dia la possibilità d’essere amata; poi, a un certo punto, capisci che devi amarti tu per prima e impari a coccolare le tue fragilità. Diciamo che sono stata a lungo vittima di un super io giudicante».
Ne parli al passato, quindi non lo sei più?
«Se un tempo mi devastava, oggi mi irrita, e va bene così. Hai presente la Parabola dei Talenti? Te li hanno dati e devi metterli a frutto».
Nel tuo modo di condurre si notano il rigore della perfezionista attenta a restare in controllo, e allo stesso tempo, curiosamente, una spontaneità calda e gesticolante.
«Un amico dei vent’anni mi aveva definita una calvinista mediterranea. In me ci sono il calore, la caciara e il rigore assoluto. Mai una volta che io abbia detto: sono stanca, questa cosa non la faccio. Nei gruppi di lavoro sono sempre stata quella che tira, su cui si finisce per fare affidamento».
Coccolare le proprie fragilità, dici: come l’hai imparato?
«Con tanta analisi, in un percorso che mi ha aiutata a capire quanto la perfezione sia noiosa, e col sostegno delle amicizie. Devo molto alle mie amiche femministe, mi hanno insegnato a non giudicare le altre, ad abbracciarle sul lavoro, a cercare sempre la complicità».
Tu sei stata abbracciata?
«Sì. Negli anni ho costruito famiglie con tante sorelle».
Nella famiglia d’origine invece c’è una mamma catechista.
«Mia madre insegnava catechismo in parrocchia, dove organizzava anche spettacoli che io, da bimba, presentavo. Una volta venne pure Andreotti ad assistere e pare che al vicino di poltroncina disse: "Al posto di questa bambina, noi ci saremo fatti la pipì nei calzoncini"».
Quindi scuola cattolica, formazione cattolica…
«Non solo da parte di mamma, papà era un cattolico democratico impegnato in politica. In famiglia c’era un forte senso della comunità, l’idea che ogni cosa la devi fare anche per gli altri, che da soli non si va da nessuna parte. Nonna e bisnonna, per dirti, avevano curato i malati di Spagnola, nonno ha nascosto il vicino di casa ebreo mettendo una finta parete in casa… Questi racconti familiari non m’arrivavano come un vanto, casomai come un "è così che si deve fare". Al tempo stesso, però, mamma mi faceva leggere don Milani, perché imparassi a vedere le realtà con un occhio sempre critico rispetto a ciò che ci viene imposto».
Vorrei parlare della «Lavagna di Serena», quella serie di citazioni che raccogli fin dagli anni del liceo classico e a volte condividi sui tuoi social. Il frasettone, insomma. Te ne dico uno che ha attirato la mia attenzione: "Odio l’amante che a tutti si dona, a fontana di piazza non bevo, mi ripugna tutto ciò che è comune".
«Ah sì, Callimaco».
Ecco: conciliare l’anticonformismo di un un poeta greco alessandrino con le atmosfere tipiche di un programma del primo pomeriggio su Raiuno, fontana di piazza per definizione, non pare scontato. È stata un po’ la tua sfida di quest’anno?
«È la sfida, certo. Quella frase di Callimaco equivale a dire: mi trovo sempre d’accordo con una minoranza, una cosa alla Nanni Moretti se vogliamo. Essere d’accordo con la minoranza è importante, ma può diventare un esercizio di superbia. Io penso d’aver trovato un punto d’equilibrio facendo un programma che mi rappresenta e rappresenta il mio gruppo di lavoro, cosa di cui siamo orgogliosi. Credo nella cultura popolare, che non significa necessariamente parlare di libri, pur se l’abbiamo fatto, ma prestare attenzione all’impianto che dai a ogni tuo racconto. Da noi trovi il personaggio popolarissimo che però ti rivela una sua fragilità, servizi su pezzi di storia del nostro Paese che gettano una luce anche sul presente, lo scrittore, il giovane talento che strappa un sorriso, Jessica che fa le facce, l’attualità, la politica… Se riesci a tenere tutto insieme incidendo su quel che sgorga dalla fontana di piazza, allora è la massima soddisfazione. La cosa più bella sono le centinaia di messaggi che ho ricevuto ogni giorno dalle persone più diverse. La sensazione è di averli trovati in un luogo e portati da un’altra parte. Comunque, quelle della lavagna sono solo frasette estrapolate! Prendersi troppo sul serio è tipico dei super io giudicanti, superare il dramma del bambino dotato è anche capire che non stiamo facendo operazioni a cuore aperto».
A chi si occupa d’intrattenimento, o d’informazione, capita di sentirsi dire: questa cosa no, il pubblico non la capirebbe. Può persino esserci l’automatismo a pensarlo. A te capita?
«Pensare che le persone siano conformiste è la più grande forma di conformismo. Un punto di debolezza dell’intellettualità contemporanea. Posto che gli ascolti, come i lettori, sono fondamentali, se ti piace una cosa è su quella che devi andare. Noi quest’anno ci siamo regolati così, e abbiamo avuto sempre ragione».
Avete forzato molto sul fronte dei diritti della persona.
«Vero, e anche su una visione della società che fosse inclusiva, rispettosa, politicamente corretta, rimettendo talvolta le cose al loro posto; ma ci siamo occupati molto anche di anziani, mai come quest’anno era importante farlo, e abbiamo avuto numerosi ospiti che hanno condiviso le loro storie di malattia».
A questo proposito: ti metti un limite, quando inviti una persona a raccontare la sua storia?
«Il rispetto. Cerco di non avere pregiudizi, perché è così che rispetti l’altro».
Tuttavia la tua imitatrice (l’attrice Barbara Foria, a "Quelli che il calcio") ti fa dire: al pomeriggio di Rai 1, quando si piange va sempre bene.
«L’imitatrice fa il suo dovere e fa benissimo a farlo, ci mancherebbe, ma è uno sketch… Vuoi sapere se è vero che la lacrima funziona?».
È una domanda retorica, però sì, dai, la faccio.
«La lacrima, come la risata: l’emozione è sempre bella, e sempre bello è poterla condividere, l’importante è che sia spontanea e non pilotata - anche perché, al di là della questione etica, il pubblico da casa se ne accorgerebbe. Io amo le storie e mi piace fare domande dirette, sono curiosissima di natura, vorrei sapere tutto di tutti. Da giornalista, poi, penso che le domande siano sempre lecite. Capita che durante l’intervista qualcuno pianga? Sì, che c’è di male? È la forza delle persone, su questo non voglio avere tabù».
La finta Serena perde le staffe e scaglia la penna verso i collaboratori in studio. Quella vera?
«Quand’ero piccola confessai l’ira come peccato capitale, mentre tutti gli altri bambini andavano sull’invidia. Mi facevano e mi fanno molto arrabbiare le ingiustizie - a scuola m’avevano fatta capoclasse perché ero sempre pronta a partire per riparare i torti subiti dai compagni - così come la malafede e la mancanza di rispetto. Al lavoro a volte mi arrabbio, è vero, anche se non scaglio la penna. Ho un gruppo con il quale c’è da anni grande sintonia, i nostri rapporti sono fondati sulla sincerità assoluta, ma guai a chi tocca uno dei miei collaboratori. Comunque, guarda che pure a me si può dire di tutto, ma tutto vero…».
La cosa più strana e inattesa che ti è capitata in tanti anni di tv?
«Ti direi la storia del primo giorno di lavoro con Mino Damato, ma l’ho già raccontata…».
Il cane che parlava.
«Giuro che è vero: entro in redazione e sento dire che bisogna fare un sopralluogo perché c’è un cane che dice mamma… Ma siccome l’ho già raccontato, oggi dico che la cosa più strana che mi sia capitata è fare un programma di successo nel pomeriggio di Raiuno».