Specchio, 27 giugno 2021
Nina Kogan, la pittrice che visse due volte
Nina Kogan non abita più qui, nel vecchio appartamento borghese dell’Ulitsa Marata, una delle traverse che confluiscono sulla Prospettiva Nevskij, la grande arteria che attraversa in fuga il centro di San Pietroburgo. Siamo dalla “parte di Dostojevski”, il quartiere dove lo scrittore ha abitato – l’ultimo indirizzo, oggi un museo-salotto, è a pochi passi. Poco o nulla ricorda invece Nina Osipovna Kogan, nota tra gli studiosi dell’avanguardia russa dei primi anni del ‘900, come l’artista che visse due volte. Qualcuno si è perfino chiesto se sia mai esistita veramente.
Sconosciuta fino a poco tempo fa, la pittrice suprematista reputata allieva di Kazimir Malevic è comparsa da qualche anno sul mercato dell’arte con un sorprendente numero di tele, disegni, carte; è attribuito a lei un ritratto di Anna Akhmatova, la poetessa che mise in versi il terrore di Stalin: una silhouette oscura, dai contorni bianchi e l’interno buio, fantasmatica. Come la sua autrice. Solo tre piccole opere, in realtà, sono considerate sicuramente di sua mano. Quello della Kogan non era certo il nome più famoso, ma il più discusso, all’inizio dell’anno, nella mostra “Original und falschung. Fragen, untersuchungen, erklarungen” (Originale e falso. Domande, ricerca, spiegazioni) al museo Ludwig di Colonia, in cui opere dubbie o rivelatesi false degli esponenti dell’avanguardia russa erano messe a confronto diretto con altre giudicate (per ora) autentiche. Il fatto è che la pittrice di San Pietroburgo è diventata la metafora dell’industria del falso d’arte in Russia, una produzione sterminata che va dalle icone medievali ai gioielli Fabergé, dai ritratti storici alla pittura di paesaggio e che ha i suoi picchi nelle avanguardie novecentesche: i cubo-futuristi, i costruttivisti, i suprematisti. Una generazione di artisti ribelli esplosa con la rivoluzione di Ottobre e divorata o mortificata dalle sue fasi successive, costretta a piegare le composizioni geometriche alle regole del realismo socialista e a recitare autodafé con il pennello, pure con tele che recano il segno del genio come la Cavalleria rossa di Malevic, che più che a una carica di valorosi fa pensare a un drappello disperso nel deserto dei Tartari. Nel 2018, una composizione suprematista di Malevic è stata battuta all’asta da Christie’s per quasi 86 milioni di dollari (poco meno di 71 milioni di euro). Secondo viene Vassilij Kandinsky: nel 2017 il suo record precedente è stato superato due volte nella stessa vendita da Sotheby’s a Londra, con due diversi quadri, fino ad andare oltre i 41 milioni di dollari (34 milioni in euro). Natalia Goncharova, vissuta in povertà, è oggi una delle artiste più care al mondo, con una pittura ad olio, Les Fleurs, pagata 8 milioni di euro.
«La produzione dei falsi segue i valori del mercato ufficiale. Era molto alta negli anni ’90 del secolo scorso, quando è esplosa la moda delle avanguardie russe in Occidente, poi proprio i falsi hanno abbassato i prezzi e l’industria del falso ha rallentato», ha spiegato in un’intervista a inrussia.com Andrei Sarabianov, uno degli storici d’arte russa più stimati, noto per avere pochi peli sulla lingua. Ora i prezzi sono di nuovo molto alti. Spinti questa volta dagli acquisti degli oligarchi. E la fabbrica dei falsi ha rimesso in moto la sua catena di montaggio. Che è cambiata, rispetto ai tempi in cui era un “family business”, come quello dei gemelli Chernov, scoperti e condannati da un tribunale di Mosca nel 2013. Oggi il mercato russo dell’arte fasulla è stratificato, la produzione appaltata a una miriade di piccoli laboratori artigiani a Mosca e San Pietroburgo, a studenti d’arte e restauratori. Le firme vengono inserite da specialisti. I quadri, per le autentiche, passano poi per expertise semiufficiali e provenienze artefatte. Vengono organizzate mostre in gallerie d’arte e prestiti prestigiosi per accrescere il pedigree delle opere. Secondo Aleksandra Shatskikh, altra nota studiosa delle avanguardie, il numero dei falsi prodotti oggi in Russia supera di gran lunga i livelli degli anni ’90. Per alcuni osservatori è almeno il doppio delle opere autentiche.
Per una curiosa coincidenza topografica, la San Pietroburgo di Nina Kogan è nota anche per le “fabbriche” di fake news, di solito indirizzate a obiettivi politici. Potrebbero essere entrate nel lucroso gioco del falso d’arte? Producendo storie inventate, percorsi fantastici di opere e artisti? Proviamo a “ingrandire” la biografia, o meglio le biografie, di Nina. Una la fa nascere a Vitebsk, in Bielorussia, dove avrebbe conosciuto Malevic che lì dirigeva la sua famosa scuola d’arte, centro di gravità del collettivo Unovis, i “campioni dell’arte nuova”. Avrebbe poi seguito il maestro a San Pietroburgo e sarebbe morta in un gulag per la sua fede artistica. Molto accattivante. Secondo un’altra biografia più accreditata, invece, nasce a Mosca, nel 1887, e cresce a San Pietroburgo, in una famiglia della borghesia ebraica. Alla scuola di Vitebsk avrebbe insegnato e creato la coreografia per un balletto suprematista. Tornata nella città dell’adolescenza, avrebbe vissuto in una stanza della casa di famiglia, trasformata in kommunalka, un’abitazione collettiva. E sarebbe morta per avvelenamento del sangue nel 1942, durante il blocco nazista intorno a Leningrado, come allora si chiamava. In entrambi i casi, la sua produzione artistica sarebbe durata pochi anni. Le quotazioni della Kogan non raggiungono certo quelle dei grandi: Malevic, Rodcenko, El Lissitzky. Ma si aggirano comunque su diverse decine di migliaia di euro. Ci sono collezionisti, a Mosca, che comprano collezioni in blocco delle sue opere. E giurano sull’autenticità dell’artista. «Mi è capitato spesso, quando trovo un falso, che il proprietario rifiuti il mio parere negativo. Per me è buono, dice», racconta Sarabianov. Vladimir Petrov, un esperto della Tretyakov di Mosca, la galleria d’arte statale più importante del Paese, ha dichiarato di aver riscontrato centinaia di tele false nelle raccolte russe. E di averne lui stesso autenticato una ventina, per errore. «Il problema in Russia è che gli esperti che sbagliano non pagano nessuna penale, basta dire che è stato un errore in buona fede. Eppure ci sono falsi che si riconoscono a occhio», ragiona Lada Zueva, consulente per collezionisti di arte russa, di base a Roma. Intanto, Petrov e Sarabianov, per le loro dichiarazioni hanno ricevuto delle minacce e sono stati messi sotto scorta. «L’ambiente del mercato dell’arte a Mosca è tossico», dice la storica dell’arte Uliana Dobrova, che collabora con un laboratorio di analisi nella capitale russa. «In compenso, i sistemi scientifici usati per individuare i falsi sono molto avanzati, grazie anche alla quantità di tele fasulle che passano in laboratorio. Se si vuole, i falsi si trovano». Strano destino per un’avanguardia che mirava alla purezza della forma, all’autenticità ideale. A Nina Kogan, elusiva come il personaggio di un romanzo post-moderno, sarebbe piaciuto di più essere ricordata per il lavoro pioneristico nel documentare la prima arte di strada, la stessa che un secolo dopo graffia i muri della Bielorussia, da Minsk alla sua Vitebsk, aprendo con forme e colori la cappa del regime di Alexander Lukashenko. Chissà se i graffitari di oggi sanno di condividere il loro dna artistico con un fantasma.