Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2021
Il primo scartafaccio della Recherche di Proust
Com’è nata quella vasta e frastagliata architettura narrativa che è la Ricerca del tempo perduto? Gran parte degli studi proustiani cerca di rispondere a questa domanda. Domanda che vale, ovviamente, per tutte le grandi opere letterarie, antiche e moderne. Com’è nata l’Iliade? Com’è nata l’Eneide? Com’è nata la Divina Commedia? Com’è nata la Coscienza di Zeno? E via dicendo… La fortuna vuole che talvolta si salvino abbozzi e appunti. A partire da questi, allora, si costruiscono ipotesi sulla formazione dell’opera; si immaginano fasi precedenti; si tenta una cronologia dell’invenzione. Tutta la “critica degli scartafacci”, come Croce battezzò lo studio dei materiali preparatori o provvisori (suppongo che “scartafaggi” gli riportasse all’orecchio “scarafaggi”), poggia sull’idea – o meglio, sull’illusione – che la nascita delle opere sia accertabile e documentabile, purché, certo, ne siano rimaste le tracce.
Ma le tracce informano davvero su tutto quel che precede le tracce? Quando cominciamo a vedere, stiamo vedendo tutto quel che ci sarebbe da vedere? L’ispirazione – perché a quella sto pensando – resta immateriale, dunque invisibile, e non ci sarà traccia o scartafaccio che ce ne dia la testimonianza diretta. Il lavoro non è l’ispirazione; viene sempre dopo; è sempre in ritardo, anche se si sforza di esserne l’immagine. Fare delle tracce la trascrizione documentaria degli impulsi mentali che hanno spinto il creatore a creare è un errore. Due presupposti non tengono: che l’opera coincida perfettamente con il suo manifestarsi; e che una grande opera (letteraria, o anche pittorica, scultorea, musicale) sia di necessità preparata da quelle precedenti dello stesso autore, e dunque – in mancanza di tracce – se ne possa e debba individuare lì, in quei risultati compiuti in sé, la gestazione. Una visione teleologica, che considera la figura dell’autore il servo di un piano trascendente, irresistibile, e gli nega il miracolo delle svolte improvvise; e tratta i vari traguardi della sua attività per pure e semplici fasi di passaggio.
Alla comprensione della Ricerca una simile visione si è applicata e continua ad applicarsi anche troppo facilmente, complici le periodiche riscoperte di carte. Nel 2019 saltarono fuori dall’archivio di Bernard de Fallois, curatore del Contro Sainte-Beuve, alcuni raccontini giovanili (ne diedi notizia su questo giornale il 3 novembre 2019), che ora Garzanti, nel centocinquantesimo anniversario della nascita di Proust, porta meritoriamente in libreria con il titolo Il corrispondente misterioso, tradotti da Margherita Botto. Qualche mese fa Gallimard ha dato alle stampe settantacinque paginette inedite di Proust, risalenti ai primi mesi del 1908, che corrisponderebbero alla prima stesura del grande romanzo, come annunciano la curatrice e il prefatore del volume (Nathalie Mauriac Dyer e Jean-Yves Tadié). Anche queste sono uscite dall’archivio di Bernard de Fallois dopo la sua morte, nel 2018, e non dal fondo proustiano della Bibliothèque nationale de France, dove a lungo le si erano cercate. Che esistessero si sapeva fin dal 1954 grazie al solito de Fallois, che ne aveva fatto cenno nella prefazione al Contro Sainte-Beuve.
Del grande ciclo romanzesco contengono alcuni dei temi più tipici: l’attaccamento del protagonista bambino alla madre, il fascino dell’arte, l’importanza dei nomi, la suddivisione del paesaggio in zone sentimentali, le fanciulle in fiore, Venezia. Vi compaiono anche personaggi che, a posteriori, si direbbero antesignani dei personaggi più importanti della Ricerca, dai familiari (nonna, mamma, papà etc.), che portano ancora i nomi dei familiari dell’autore, a Swann… La teoria della memoria involontaria non è ancora nata. Però, è già nata la famosa frase della Ricerca, che, capace di aggregare in una simultaneità sintattica varie notazioni, è già di per sé una sorta di miniaturizzato sistema mnemonico.
L’importanza di queste paginette sta nel sogno di una realtà più ampia, superiore alla realtà empirica, di cui la Ricerca sarà la trionfale rappresentazione. Dare alle cose una seconda occasione, scoprirne la valenza metaforica: ecco il senso ultimo del discorso che Proust elabora nel corso di tutta una vita. Le settantacinque paginette sono già una decisa affermazione di questo (si considerino in particolare le riflessioni su Venezia, «città più che città»). E su questo sarebbe bene che i critici insistessero. Invece, la curatrice e il prefatore sostengono che, poiché Proust usa i nomi dei parenti, le settantacinque paginette sono autobiografia, non ancora romanzo. Quanto si equivoca ancora sul rapporto tra i due! L’equivoco nasce dalla già ricordata abitudine di leggere il prima alla luce del dopo, minimizzando il prima; ma si alimenta pure di un tenacissimo pregiudizio biografico, per cui la vita dell’autore – anche per il più sprovveduto dei lettori – è sempre destinata ad affacciarsi in qualche modo nel romanzo, e che il romanzo vince tanto più sull’autobiografia quanto più la narrazione riesce a cancellare le prove anagrafiche.
Sarà dunque sufficiente cambiare i nomi dei familiari con nomi d’invenzione per entrare nel romanzo? Occorrerà poter dimostrare che l’autore ha trasformato antiche verità in bugie perché romanzo sia? Niente affatto. Il romanzo c’è se c’è una teoria della vita, per quanti legami si possano individuare tra il racconto e i dati biografici dell’autore. Una teoria della vita il Proust delle settantacinque paginette dimostra già di averla (il bisogno di trasfigurazione, di dilatazione metaforica), anche se usa i nomi dei parenti; è già romanziere, seppure non sia ancora capace di dare al suo romanzo l’ampiezza e la ricchezza monumentali di cui darà prova con la Ricerca.