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 2021  giugno 27 Domenica calendario

A tu per tu con Milena Bertolini

«È fondamentale nello sviluppo della persona che diventerai, quello che respiri dalla nascita e durante la crescita. Io vengo dall’Emilia Romagna, regione in cui l’emancipazione della donna è un passo avanti anche per la storia della nostra regione. E questo credo abbia fatto la differenza nelle mie scelte». Milena Bertolini, commissaria tecnica della Nazionale italiana femminile di calcio, ha un modo pacato ma molto risoluto di esprimersi, anche quando parla del proprio passato. Nata nel 1966, Bertolini ha una storia familiare che è uno dei milioni di fili che hanno fatto l’intreccio della storia d’Italia. «Ai tempi della seconda guerra mondiale, mio nonno Emilio era dei partigiani e viveva in mezzo ai boschi. A casa era sua moglie Adalgis, a condurre la famiglia, anche nelle scelte che erano tipiche maschile a quei tempi. Mio padre aveva lei come punto di riferimento. Quando respiri queste cose in famiglia ti formi come persona» racconta. 
In famiglia nasce anche la sua formazione politica. In quella Correggio, che dista solo 40 minuti dalla Brescello di Peppone e Don Camillo. «Nonno raccontava a me e ai miei cugini, con cui abitavamo tutti insieme in una casa contadina, la sua storia. La sua passione politica coinvolgeva tutti in famiglia in particolare in occasione delle elezioni quando le notizie e i risultati arrivavano attraverso una staffette dei suoi amici» ricorda Bertolini, che prosegue: «Lo zio Vincenzo, poi, è stato segretario del Partito Comunista di Reggio Emilia, quando ci fu il famoso sorpasso nel 1984 e Reggio fu la città in cui il Pc prese più voti. La donna di mio zio era la figlia di Nicolini, il sindaco di Correggio, e anche lei faceva politica. Un altro esempio di donna fuori dagli stereotipi del tempo». Bertolini è così cresciuta «senza il concetto di classe, nel rispetto della dignità di tutte le persone, nell’esempio del fare insieme e della cooperazione». Insegnamenti che ha portato con sé come la consapevolezza che «i risultati si ottengono attraverso il lavoro. In Emilia andavo già ad aiutare in campagna d’estate e ho imparato che per ottenere qualcosa nella vita occorre sacrificio, impegno».
La formazione sportiva è andata di pari passo con quella personale. «Da bambina mi piaceva fare sport. Dove abitavo io in campagna al campo da calcio erano tutti maschi e ho iniziato a giocare con loro quando avevo sette anni. Poi attorno ai miei 13 anni mio zio, che conosceva un allenatore di una squadra femminile di Correggio, mi portò lì. Era il 1979 e la squadra era composta da ragazze di varie età: io era la più giovane e la più grande aveva 31 anni» racconta Bertolini, che prosegue: «Mamma Eves e papà Virgilio mi ripetevano che l’importante era studiare e finire la scuola. A 13 anni sapevo già che volevo fare scienze motorie, ma alle superiori scelsi geometra, che mi avrebbe preparato a un mestiere. Poi, comunque, frequentai l’Isef e mi laureai mentre giocavo». Perché Bertolini già sapeva che avrebbe voluto fare dello sport la sua professione.
Nel 1984 arriva l’occasione di giocare a Reggio Emilia con l’ACF Reggiana in Serie B. «Gli anni alla Reggiana sono cresciuta con delle amiche e delle compagne. Alla mia terza stagione abbiamo conquistato la promozione in Serie A». Una carriera in tanti club: dal Bologna al Monza, dal Modena al Pisa, ma ricorda in particolare Sassari: «L’anno in Sardegna mi ha fatto scoprire la bellezza dei sardi. A livello di scoperte è stato il più significativo». E nel palmares tre Campionati Italiani, una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana. 
Il debutto in Nazionale a 24 anni avviene in una partita rimasta epica nella storia delle azzurre. L’Italia affrontò l’Inghilterra in un’amichevole giocata per la prima volta nello stadio di Wembley davanti a ottantamila spettatori. La Nazionale italiana uscì dal campo con la vittoria di 4-1 grazie al poker di gol segnati da Carolina Morace. «Siamo entrate in spogliatoi enormi che solo il mese prima erano stati il camerino di Madonna in occasione del suo concerto. Io venivo dagli spogliatoi delle parrocchie, che magari per terra avevano anche la moquette» sottolinea Bertolini, tornando poi con la memoria ad un altro debutto in Nazionale, quello da allenatrice: «Il debutto come calciatrice è stato più inconsapevole, mentre il debutto come allenatrice ai Mondiali è stato molto vissuto dentro perché era il risultato di anni di lavoro e sacrificio». Anni che l’hanno vista allenare e allo stesso tempo lavorare: «Ho allenato dai bambini di 5 anni a una prima squadra in eccellenza. Sono arrivata ad allenare la Nazionale nel 2017 a 51 anni, dopo 30 anni di gavetta». Un traguardo importante in un momento di forte cambiamento per il calcio femminile italiano. «Il senso di responsabilità in Nazionale è molto più alto rispetto ai club perché rappresenti il Paese e il movimento del calcio femminile: la Nazionale non fa bene se i club non lavorano bene e se la nazionale non fa bene i club non guadagnano. È un ciclo virtuoso».
Un ciclo virtuoso che ha avuto un’accelerazione con la qualificazione dell’Italia ai mondiali di Francia 2019. «La squadra ha espresso un bel calcio, fatto di tecnica, armonia ed eleganza, impregnato di valori sportivi. Le nostre caratteristiche erano non mollare su ogni pallone, sacrificio, vivere insieme le cose. Il gruppo era fatto da atlete che sono cresciute assieme e avevano un obiettivo comune. Questa è la forza che hanno avuto. Per loro partecipare ai mondiali era un sogno, felicità allo stato puro: gli stadi pieni, il tifo, sentirsi considerate come atlete, sentirsi valorizzate, seguite dai media» ricorda Bertolini, che aggiunge: «Ci vuole molta passione e bisogna credere in quello che si fa. Eravamo tutte proiettate verso lo stesso obiettivo. Il bene comune era al primo posto, in questo modo si ottiene di più della somma delle individualità». E il post mondiali? «Le prime partite di club hanno creato qualche scompenso, ma noi veniamo da un calcio fatto davanti a nessuno. Non è stato difficile riadeguarsi al senso della realtà». Ma le cose stanno cambiando velocemente. Questo porta con sé anche dei rischi. «Ora che ci sono le risorse economiche e le società sportive investono nel calcio femminile, arrivano gli allenatori uomini. Ci sono tante donne brave che però non vengono prese in considerazioni. Si ha il pregiudizio che le donne sappiano meno dal punto di vista tattico e siano più mamme. Avere allenatrici e dirigenti donne, invece, fa sì che il calcio femminile possa contaminare il calcio maschile con le sue caratteristiche: spirito di sacrificio, correttezza, fair play». Per una vera contaminazione dovremmo avere allenatrici nelle squadre maschili di Serie B e Serie A e Bertolini è una delle tre italiane ad averne l’abilitazione, ma su questo taglia corto: «Non ci sono dirigenti che hanno il coraggio di prendere figure femminile in uno staff maschile. Il calcio maschile è ancora maschilista e chiuso».
Lo sport, nella vita della ct, si è intrecciato spesso con la politica e le istituzioni. «Ho portato la mia conoscenza dello sport nelle mie scelte politiche. Allo stesso tempo ho portato l’esperienza politica nella mia attività di allenatrice» spiega Bertolini, che è stata assessora allo sport e servizi sociali di Correggio e consigliere provinciale a Reggio Emilia, oltre che presidente della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia. «La politica è fare il bene delle persone. Stare dentro i campi da calcio, conoscere dirigenti, allenatori, famiglie e atleti ti fa capire quali sono le azioni da intraprendere perché lo sport sia realmente un fattore di crescita e di educazione».
La ct ha rinnovato fino al 2023 con la Nazionale, guiderà quindi le azzurre agli Europei del prossimo anno e ai Mondiali in Australia e in Nuova Zelanda del 2023. Questa volta quale sarà l’obiettivo? «Vorrei che la nazionale arrivi fra le squadre top a livello mondiale, ma potrà succedere solo se in Italia la federazione e il movimento punteranno sul professionismo (in arrivo dal 2022, ndr), investiranno risorse, avranno idee di sviluppo e se si arriverà a 100mila tesserate dalle 30mila di oggi» sottolinea la ct, proseguendo: «Bisognerebbe agevolare la formazione di squadre miste, utile sia dal punto di vista culturale sia tecnico. Ci vogliono idee coraggiose e bisogna lavorare sui territori: ogni bambina deve avere la possibilità di giocare nella squadra del quartiere. Se c’è una volontà c’è una via, basta trovare le modalità a livello regolamentare». Non solo. «Bisogna investire nella formazione delle figure professionali nelle società sportive per fare sport con inclusione. Ed è importante che bambine e bambini continuino a fare sport anche da adulti. Oggi a una certa età si seleziona, creando dei danni enormi a livello psicologico. Lo sport è uno strumento di sviluppo della personalità, è necessario che gli attori siano preparati. L’investimento ti torna indietro in termini di uomini e donne che faranno parte della società civile».
Milena Bertolini sarà impegnata nei prossimi anni 
con la Nazionale, ma ha già idee, competenze, formazione ed esperienza per contribuire allo sviluppo dello sport in Italia, perché, come dice lei, bisogna 
avere «una visione che va oltre il risultato, 
deve andare verso il bene comune».