La Stampa, 27 giugno 2021
Hemingway il misogino (intervista a Curtis DeBerg)
«Hemingway era un misogino, non sarebbe accettato nell’era del #MeToo. Per fare carriera dovrebbe cambiare immagine e dedicarsi ad altri temi, tipo ambientalismo e clima». Era noto che Traveling The World With Hemingway di Curtis DeBerg non fosse un’agiografia, pubblicata per celebrarlo nel 60° anniversario della morte che cade venerdì. Però il professore della California State University-Chico, innamorato di «Papa» al punto di visitare tutti i luoghi chiave della sua vita, va oltre le attese.
Partiamo dalla prima avventura, in Italia.
«Ha modellato la sua vita e la carriera, per molte ragioni. Gli ha dato la prima esperienza di guerra, alcol e donne, attraverso l’amore con Agnes von Kurowsky. E ha rivelato il carattere di violatore delle regole, perché come autista di ambulanze non doveva andare in trincea».
Ha forgiato anche lo stile?
«Addio alle armi parla di Caporetto, avvenuta un anno prima che lui arrivasse. È il suo genio: ricercare i dettagli di una storia non testimoniata, riscrivendola poi meglio della realtà».
Che impatto ha avuto la ferita di mortaio?
«A Fitzgerald disse che uno scrittore diventa grande se abbraccia il dolore. In quasi tutti i suoi romanzi c’è un eroe che vuole dimostrare grazia sotto pressione, guardando la morte in faccia senza diventare codardo. In realtà Hemingway riconosceva che il vero eroe non era lui, ma il soldato italiano Fedele Temperini, morto al suo fianco».
L’amore con Agnes inizia il complicato rapporto con le donne.
«Ci sono pochi dubbi che fosse misogino. Con la prima moglie Hadley Richardson durò poco perché non aveva i mezzi per consentirgli la vita dei ricchi e famosi. Si era innamorato della seconda, Pauline Pfeiffer, perché era attraente, ma anche perché la sua famiglia aveva i soldi e lei era un perfetto editor dei suoi romanzi. Martha Gellhorn è quella che gli ha tenuto più testa, e lui la picchiava. Una volta, mentre lo riportava alla Finca Vigía dal bar Floridita, lei perse la pazienza, andò a sbattere con l’auto contro un albero, e gli ordinò di trovarsi da solo la strada di casa. Anche Mary Welsh si lamentava perché alzava le mani, ma allora il mito dello scrittore macho includeva un rapporto "fisico" con le donne».
Oggi sopravvivrebbe?
«Non so come potrebbe salvarsi. Di certo dovrebbe cambiare atteggiamento verso le donne, abbandonare guerra e sangue, e scegliere soggetti più adeguati ai tempi».
Verrebbe bandito?
«La grande letteratura è legata al tempo in cui viene scritta. Mark Twain usava parole oggi inaccettabili per il politically correct, ma perciò non andrebbe insegnato nelle scuole? Certamente no, però gli insegnanti devono chiarire che la grande letteratura scatta una foto del tempo in cui nasce. Non guarderemmo più i dipinti di Cézanne perché ci sono i nudi, o di Michelangelo perché i soggetti religiosi non corrispondono al nostro credo? Ovviamente no. Se Hemingway fosse vivo, però, dovrebbe adattarsi al XXI secolo».
Che influenza ha avuto il rapporto con la madre?
«Era una donna dominante, i pantaloni in casa li indossava lei. Ernest ha sempre odiato il padre perché era un codardo, ma da adulto ha odiato anche la madre che chiamava "bitch". Poi però, quando il padre si suicidò, sentì il dovere di sostenerla economicamente».
Il suo suicidio come lo spiega?
«Come il padre soffriva di depressione, ma in più era alcolizzato: definiva l’alcol la benzina che teneva acceso il suo motore, e senza non poteva lavorare. Poi le sei ferite alla testa lo avevano gravemente danneggiato, soffriva di encefalopatia traumatica cronica, e la terapia elettroconvulsiva ricevuta alla Mayo Clinic lo aveva privato della memoria, incapace di scrivere persino la lettera di congratulazioni che gli aveva chiesto il presidente Kennedy dopo l’elezione».
Qual era il suo rapporto con Cuba?
«Dicono che Hemingway fosse apolitico, ma non sono d’accordo. Nella guerra civile spagnola prese posizione a favore del governo, non perché fosse comunista, ma perché era schierato contro il nazifascismo. A Cuba non sopportava Batista, e aveva avuto problemi sostenendo la rivoluzione nella Repubblica dominicana».
Cosa pensava di Castro?
«Lo aveva visto una volta sola, quando Fidel vinse il primo torneo di pesca organizzato da Ernest, prendendo il marlin più grande. Però erano in simpatia, Hemingway apprezzava la sua difesa dei lavoratori».
Perché andò via da Cuba?
«Il governo Usa gli disse che doveva scegliere tra l’America e la rivoluzione. Lui rimase fedele alla patria, ma pensava di tornare a Cuba, dove infatti aveva lasciato tutto, inclusi i manoscritti».
L’Fbi sospettava di lui?
«Il direttore Hoover aveva sempre tenuto un file su Hemingway, anche quando diceva che non era più in grado di nuocere perché sempre ubriaco».
Perché vivere a Ketchum non bastò a salvarlo?
«Se nel 1961 fossero esistiti gli antidepressivi di oggi, avrebbe vissuto altri 10 o 15 anni. Però non avrebbe smesso di bere, il suo fisico era devastato, e la moglie voleva lasciarlo».
Qual è la sua eredità?
«Su Facebook ha gruppi con migliaia di seguaci e il documentario di Ken Burns è stato un grande successo. Oggi però dovrebbe cambiare stile, puntando su racconti brevi e trasformando la sua vita nel proprio soggetto. Credo si dedicherebbe alla grande causa ambientalista. Magari non sposerebbe il Green New Deal dei radicali, ma così continuerebbe a essere un autore che conta».