Corriere della Sera, 27 giugno 2021
Emilio Praga, critico molto scapigliato
Giuseppe Barbaglia era solito riunirsi con gli amici in via Vivaio a Milano, e, sotto le frasche, arringare il gruppo sulla sua idea di arte: «Tutto quanto si svolge nella vita è pittorico, purché se ne sappia cogliere l’impressione sincera». Fonti d’ispirazione ne aveva parecchie, le cronache confermano: nato nel 1841, deciso a dimenticare «l’amore disgraziato» per una fanciulla brianzola, «il Barbaglia s’era avventurato ad ogni pericolo, sfidando le più ardue fatiche, ma gli sopravvennero il tifo e tal malattia in una gamba che si dovette tagliargliela per minaccia di cancrena». E allora «guarito, ma con una gamba di meno, domandò della sua bella, e intese che si era fatta monaca. Per consolarsi, si dedicò alla pittura».
Svolta. Con i colori va meglio che in amore: il dipinto dell’esordio a Brera nel 1866, Cristo all’orto, «vien comprato dal re».
La parabola di Giuseppe Barbaglia è tra le tante fissate negli articoli firmati (anche) dagli amici di via Vivaio, che a fasi alterne ne sono protagonisti. Emilio Praga (1839-1875) è parte della cerchia: scavando nella sua attività di critico d’arte si ricava la fotografia vivida della Scapigliatura che tenta la rivoluzione culturale, esaltando tormenti e malinconie in barba al conformismo risorgimental-borghese. Di sala in sala. Cronache d’arte (1864-1871), Aragno, raccolta degli scritti di Praga curata da Daniela Tonolini, con prefazione di Ermanno Paccagnini, è un saggio-indagine frutto di nove anni passati a seguire lo zigzagare dell’autore fra mostre ed esposizioni, recuperando testi autografi e inquadrandoli grazie a montagne di pagine tratte da oltre 200 testate italiane e straniere quasi introvabili. Così la ribalta per il pensatore poliedrico s’intreccia a dibattiti fra intellettuali (chi firma per un giornale, chi per un altro) nel ribollire di un’epoca.
Poeta, scrittore, pittore e librettista, Emilio Praga nasce borghese: milanese di Gorla, è figlio del ricco proprietario di una conceria di pelli. Viaggia parecchio, a Parigi lo folgorano Charles Baudelaire, Victor Hugo, Eugène Delacroix. In pieno «maledettismo» muore a 36 anni distrutto dall’alcol. Eppure lascia il graffio nei circoli della bohème all’italiana. «L’intenzione iniziale – annota Paccagnini – era riordinare gli scritti di critica di colui che sin lì era sempre stato studiato soprattutto come poeta. La proposta non aveva però fatto conto della curiosità della curatrice e della sua volontà di vederci chiaro dietro a quei dipinti o quelle sculture, opere talune notissime, altre sconosciute».
Andare di sala in sala era per l’autore «l’immersione insieme razionale ed emotiva in un mondo che cercava faticosamente nuove vie di continuo ostacolate dall’accademismo. Bisognava far “rivivere” quel mondo». Lì dove Praga giornalista entra a gamba tesa, «guarda oltre l’opera – ricorda Tonolini – analizzando il rapporto tra ideazione e realizzazione, senza mai negare credito o fiducia al recensito, anche quando sente di dovere esprimere giudizi durissimi».
Accade con Federico Faruffini, bacchettato nel 1865 (La vergine al Nilo denota «assoluta mancanza di unità nel concetto»), verso cui comunque è costruttivo offrendo «da collega» consigli tecnici. «Ciò ci dice dell’esistenza di una non codificata ma salda “comunità dei pittori”». Nella lunga immersione tra i documenti affiorano dettagli inediti. Mentre Praga celebra La Barca di Dante (1822), «primo gran quadro di Eugenio Delacroix, il più bersagliato e rinnegato dei rivoluzionarii», Tonolini setaccia i carteggi del Louvre e recupera il prezzo della tela: offerta allo Stato per 2.400 franchi, piazzata per 2 mila. È l’equivalente di 5 mila euro di oggi per un capolavoro, ma Delacroix, poverissimo, esulta.
Gli autori citati sono 117, una variegata umanità. Il piemontese Riccardo Pasquini ad esempio, «di finissima intellettualità creativa», dal 1870 al 1889 è presente a tutte le mostre che contano, salvo sparire per 43 anni. Oggi sappiamo che era stato ordinato sacerdote e aveva altro a cui pensare. Di Giuseppe Adolfo Feragutti Visconti, «tra i più valorosi impressionisti lombardi della seconda generazione», il cronista inchioda il caratteraccio: «Veduto che uno dei suoi quadri era collocato sotto luce infelice, ha fatto le sue lagnanze. Poi levò di tasca un temperino e tagliuzzò la tela». Succedeva a Milano, teatro principe – con Torino – delle incursioni per «Il Pungolo» (dal 1864) e «Il Sole» (dal 1865). Finché la salute lo concede, Praga stronca, fa polemica, eppure è attento a guizzi in gestazione, come teorizza nel novembre 1870: «Cotesto che voi chiamate uno sgorbio, lo è, ma è uno sgorbio di un poeta, è l’accento di una mestizia che non è ancora in possesso di tutte le regole grammaticali per esprimersi». Muore il 26 dicembre 1875, i giornali milanesi strabordano di affettuosi necrologi. Solo uno è avaro: «La Perseveranza». Il foglio della borghesia non gli aveva perdonato il voltafaccia scapigliato.