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 2021  giugno 27 Domenica calendario

Nuova lettura della «Carta ravennate»

C’è un antico testo italiano che non lascia in pace gli studiosi e rappresenta un autentico mistero nella ricerca letteraria. Si tratta di una poesia (una canzone) il cui incipit è «Quando eu stava in le tu’ cathene». Questo documento, noto come Carta ravennate, fu trovato nel 1938 dal paleografo romagnolo Giovanni Muzzioli nell’Archivio storico arcivescovile di Ravenna, ed esattamente nel fondo del monastero soppresso di Sant’Andrea Maggiore. Era trascritta nel verso di una pergamena utilizzata nel 1127, sul recto, come atto di vendita di una casa. Muzzioli segnalò quel documento all’illustre maestro, bibliotecario e filologo, Augusto Campana, il quale nel 1962 descrisse quella poesia come «una canzone d’amore fornita di note musicali, trascritta in Romagna alla fine del secolo XII: probabilmente la più antica lirica italiana». 
Un altro filologo e linguista, Alfredo Stussi, si dedicherà a studiare il testo e nel 1999 lo pubblicherà una prima volta confermando nella sostanza le considerazioni di Campana: si tratta di una canzone formata da cinque strofe di dieci decasillabi l’una, linguisticamente settentrionale ma copiata su venticinque righe da una mano marchigiana databile tra il 1180 e il 1210, come del resto confermato dal paleografo Armando Petrucci. Sulla destra, una seconda mano avrebbe aggiunto, forse un paio di decenni dopo, cinque endecasillabi vergati su due righe e mezzo. Un’altra perizia stabiliva che la nota musicale nulla avrebbe a che fare con i due testi. Dunque, secondo Stussi e altri, la pergamena sarebbe stata riutilizzata almeno tre volte, ma quel che conta è che la canzone «Quando eu stava», secondo quegli studi, rappresentava la prima lirica d’amore in lingua di sì, precedendo persino le prove poetiche della Scuola Siciliana e del suo capostipite Giacomo da Lentini. 
Varie analisi si sono succedute in questi anni per mettere insieme le tessere di un mosaico che comunque convinceva poco nonostante la mobilitazione dei maggiori cervelli della filologia, della storia della lingua e della paleografia. 
Ora, riesaminando i vari aspetti materiali del documento, ricostruendo alcuni elementi storici e linguistici e rivedendo nel suo insieme la composizione della pagina, due studiosi dell’Università di Pisa, la storica della lingua Roberta Cella e il paleografo Antonino Mastruzzo giungono a conclusioni nuove e sorprendenti che sono state anticipate l’8 giugno in un seminario online della Fondazione Franceschini e che verranno pubblicate in un volume del Mulino tra qualche mese. 
Questa ulteriore analisi mette in dubbio la datazione fissata da Campana e da Stussi reinterpretando la canzone in una chiave non amorosa e rivalutando una lettura degli elementi presenti sulla pagina come l’insieme di un progetto coerente. 
Si parte da un’occasione storica: la presenza di Federico II a Ravenna, nella primavera del 1226, nel contesto di vicende politiche, diplomatiche e militari piuttosto intricate. Era infatti un momento cruciale per la politica del giovane Federico II, in cui i comuni settentrionali, turbati dalla annunciata (e mai realizzata) dieta di Cremona e temendo la restaurazione dei diritti imperiali, si organizzarono nella cosiddetta seconda Lega lombarda e avviarono una consistente propaganda, cercando di attrarre a sé il massimo di città padane. In questo contesto di inquietudine e di attesa, un gruppo di funzionari imperiali, italiani e tedeschi, in viaggio da Pescara per raggiungere Cremona, aveva fatto tappa a Ravenna intrattenendosi, dal 2 aprile al 7 maggio, con esponenti della società locale. È probabile che tra questi ci fossero anche personaggi attivi nel campo del diritto, legati da interessi personali e professionali all’antico monastero di Sant’Andrea Maggiore, con cui Federico e il suo entourage di notabili, diplomatici, assistenti laici ed ecclesiastici avrebbero avuto rapporti stretti, se è vero che in quello stesso aprile l’imperatore rilasciò alla badessa Gualdrada e al monastero benedettino femminile un solenne privilegio, che garantiva benefici e protezione. 
L’ipotesi è che in quei giorni qualche eminenza ravennate sia stata colpita da certe sperimentazioni poetiche in volgare, recitate e messe in musica da autori meridionali, magari incoraggiati dallo stesso sovrano svevo. Ritengono Cella e Mastruzzo che lo stupore e la curiosità possano avere indotto un paio di rappresentanti legali del monastero «a fissare per iscritto, a futura e privata memoria, quanto composto e cantato per il diletto della scelta compagnia». E questi eminenti personaggi lo fecero nel modo più logico, cioè «utilizzando strumenti e materiali immediatamente disponibili a chi, ravennate, avrebbe visto di lì a poco, probabilmente con rammarico, partire la corte imperiale con i suoi raffinati e conturbanti splendori, con le sue ancora intatte promesse, o illusioni, di ordine e di pacificazione generale». 
Non deve stupire, pertanto, il fatto che la canzone si trovi trascritta nel verso di una pergamena che un secolo prima era servita per un atto di vendita. 
Secondo i due studiosi, in un piacevole contesto di condivisione e di svago tra ospiti e pubblico locale, la canzone sarebbe stata eseguita con musica e con un ritornello (i cinque endecasillabi). Il che implica che non si tratti di una copia (come è stato invece sostenuto), anche se non si può parlare di autografo trattandosi di esecuzione orale. E dimostrerebbe che la tripartizione, considerata dai più come il risultato di successive giustapposizioni irrelate, apparterrebbe allo stesso progetto originario. I due blocchi scritti (canzone e refrain) si devono a due mani diverse (e forse simultanee) di avvocati trascrittori, uno dei quali viene identificato con nome e cognome come un legale attivo in quegli stessi anni nel monastero ravennate. Persino le irregolarità del tratto trovano ragione, a questo punto, nel fatto che, stando così le cose, l’opera di trascrizione estemporanea avveniva con la pergamena appoggiata sulle ginocchia durante la performance o nei suoi immediati dintorni. 
Se ci troviamo davvero di fronte a una canzone siciliana nata dall’oralità, sentita eseguire (o in via di composizione) e trascritta alla meglio sul posto da ascoltatori romagnoli, anche la lingua del testo troverebbe una sua coerente ragion d’essere: si tratterebbe infatti di un colore ibrido con elementi settentrionali che si sovrappongono a una struttura sostanzialmente centro-meridionale (inequivocabilmente siciliana nelle rime). Siamo, nel 1226, in una «fase aurorale, in qualche modo sperimentale» della produzione lirica siciliana, ancora lontana dalla Scuola che programmaticamente avrebbe recuperato i moduli della poesia provenzale che in questa fase risultava irritante. E questa ricostruzione, se confermata, renderebbe la Carta ravennate un documento di assoluto pregio e di insperata novità che conferma l’anticipo agli anni Venti del Duecento degli esordi siciliani (nel 2013 la precocità della conoscenza della poesia siciliana nel Nord Italia era già stata rivelata da un importante ritrovamento, in una biblioteca lombarda, ad opera di Giuseppe Mascherpa). 
La sorpresa maggiore proviene dall’interpretazione del testo: una composizione che dietro la metafora amorosa lascia trasparire un messaggio di propaganda, nella speranza, non ancora del tutto sfumata, di un accordo onorevole con i comuni e utile al Papa, al quale l’imperatore aveva solennemente promesso una crociata cui la questione lombarda poneva gli ultimi ostacoli. La parallela pubblicistica in lingua provenzale promossa dai comuni alleati in chiave antimperiale fa pensare che qui, viceversa, i luoghi comuni della lirica cortese siano resi funzionali, con una scelta linguistica programmaticamente diversa, all’esaltazione della fedeltà incondizionata dovuta all’imperatore nonostante le continue sofferenze ma in vista di benefici massimi: l’unione ideale tra «amante» e «amata» è messa in crisi da «malparlieri» che seminano dubbi sulla reale volontà dell’imperatore di ricompensare adeguatamente i suoi fedeli. Una lotta politica combattuta anche in versi e musica.