Corriere della Sera, 27 giugno 2021
Guerra fredda e guerra culturale
La nuova guerra fredda, di cui abbiamo parlato nell’ultimo «Ago della bilancia», non è il solo conflitto scoppiato negli scorsi mesi fra le maggiori potenze. Ve n’è un altro che potremmo definire «guerra culturale». La prima bordata è esplosa quando negli Stati Uniti la diffusione del coronavirus nel mondo è stata attribuita alla negligenza della Repubblica popolare (se non addirittura a un piano dell’Impero celeste). La vera responsabilità è indubbiamente della globalizzazione, ma agli strateghi della propaganda americana è sembrata una buona occasione per mettere la Cina in cattiva luce.
Altrove, fra gli Stati Uniti e la Russia, si combatteva nel frattempo una guerra cibernetica. Sappiamo che i sevizi d’intelligence dei due Paesi sono bene attrezzati e che in parecchie occasioni hanno ceduto alla tentazione di darne una dimostrazione. Sarebbe l’ Fsb (erede del Kgb), per esempio, che durante la campagna delle penultime elezioni presidenziali è entrato negli archivi della candidata democratica (Hillary Clinton) per cercare vicende che potessero screditarla agli occhi degli elettori e favorire l’elezione di Trump.
Un altro tema di cui i russi fanno un largo uso è quello del razzismo negli Stati Uniti e del modo in cui gli afroamericani sarebbero ancora trattati dai «bianchi» nel loro Paese. Non è la prima volta. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, mentre la propaganda anticomunista in molte democrazie faceva una dura campagna contro lo stalinismo e accoglieva a braccia aperte gli intellettuali che lasciavano l’Urss, Mosca non mancava occasione per ricordare il trattamento subito dai neri d’America. Vi era qualche esagerazione, ma anche parecchia verità e non era necessario essere comunisti per deplorare il trattamento che il grande alleato americano riservava a una parte considerevole della sua popolazione. La Russia sovietica, in quel clima, segnò allora parecchi punti fra cui la conversione al comunismo di un famoso cantante americano, Paul Robeson, noto per avere aggiunto al suo repertorio una brillante esecuzione dell’inno nazionale sovietico in lingua inglese.
Lo status dei neri d’America cominciò a cambiare con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, eletto nel 1961, ma ucciso nel 1963; e venne radicalmente cambiato da Lyndon B. Johnson che nel 1965 fece approvare la legge sui diritti civili e quella sul diritto di voto. Ma negli ultimi tempi alcuni episodi, fra cui la recente morte per asfissia di un afroamericano, George Floyd, brutalmente trattato dal poliziotto che lo aveva arrestato per un piccolo reato, hanno suscitato fra la popolazione sentimenti opposti.
Esiste ancora un’America razzista ed esiste anche una Russia che se ne serve per controbattere alcune critiche degli Stati Uniti. Entrambi, come accade spesso nei rapporti fra gli Stati, hanno almeno in parte ragione.