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 2021  giugno 26 Sabato calendario

Intervista ad Annalena McAfee

Nella sua famiglia, le Annalene sono numerosissime. «Due anni fa, al funerale di mia zia, solo in chiesa eravamo sei». Quel nome viene dal ramo materno irlandese grazie al quale, mi dice con orgoglio dalla casa londinese che condivide con il marito Ian McEwan, «sono un membro dell’Unione Europea: ho il doppio passaporto». Dalla famiglia scozzese del padre, invece, le sono arrivate le simpatie per il movimento indipendentista.
Annalena McAfee, 69 anni, è stata a lungo un’importante giornalista letteraria: dopo un primo impiego alla Marvel, ha lavorato al Financial Times e poi al Guardian, dove ha contribuito a fondare la «Guardian Review». Nel 2006, ha mollato tutto per dedicarsi alla scrittura. Ai tempi, era sposata con Ian già da nove anni (si erano conosciuti grazie a un’intervista), durante i quali lo aveva affiancato nella crescita dei due figli avuti dalla precedente moglie. Ora che i ragazzi sono grandi e, a loro volta, genitori, i McEwan sono una grande famiglia che ha trascorso insieme buona parte dei lockdown dell’ultimo anno e mezzo.
In questi giorni esce in Italia il terzo romanzo di McAfee, Belladonna, che ha come protagonista Eve, così diversa da lei: un’artista che disegna fiori interessata solo al lavoro, una madre cattiva e manipolatrice che, quando pensa di avere trovato un amore, si vede crollare tutto addosso.
Le piace Eve?
«Sì, anche se non vorrei averla come amica. Alcuni lettori mi hanno detto di essersi affezionati a lei per la sua vulnerabilità. La vulnerabilità è sempre attraente. Di lei ammiro soprattutto la determinazione, il voler reclamare uno spazio per la propria arte, come hanno fatto gli uomini fin dai tempi delle pitture rupestri. Come loro, mette la propria arte davanti a tutto e amicizia e famiglia finiscono in secondo piano».
Le donne non sono, per natura, migliori degli uomini.
«Infatti. Gli uomini non hanno il monopolio dei cattivi comportamenti, solo che le donne hanno meno opportunità per metterli in pratica».
Leggendo il libro, mi è venuto in mente "Il canto di Natale" di Dickens, un altro "viaggio", un’altra resa dei conti.
«Sa che non mi era venuto in mente? Devo rileggerlo. Ho pensato che il "viaggio" sarebbe stato un buon espediente per permettere a Eve di riflettere sul proprio passato, di combattere con il presente e anticipare il futuro. Conosco benissimo Londra, ho praticamente passato i miei vent’anni sulla metropolitana. Il senso di camminare in un paesaggio urbano che conosci così bene è che, osservando come è mutato nel tempo, hai il senso del tuo stesso cambiamento».
Eve si muove da West London a East London. Ha un significato particolare?
«Sì. Da londinese, la parte est è sempre stata associata a povertà, depressione, immigrazione, mentre l’ovest alle sale da concerto, i teatri, i piaceri culturali. Negli anni, però, la città è cambiata: l’est, che era famoso per le rapine, oggi è hip come Brooklyn».
Quando ha iniziato a scrivere, sapeva già come sarebbe finita la storia di Eve?
«No. Le prime pagine mi sono arrivate come un’apparizione: c’era una persona che camminava di notte per Londra e guardava dentro le case illuminate. È stata un’immagine pittorica, un dipinto di Hopper».
L’arte e le piante sono sue grandi passioni.
«Le piante mi sono sempre piaciute, ho anche frequentato un corso di arte botanica a Oxford dove, per la prima volta, ho imparato a vederle. John Ruskin (scrittore e critico d’arte d’epoca vittoriana, ndr) diceva che quando voleva scoprire qualcosa ci scriveva su un libro. È quello che ho fatto io con Belladonna».
Che tipo di arte le piace?
«Ho gusti molto tradizionali. Ci sono alcuni dipinti che torno sempre a vedere, come quando a New York non posso fare a meno di andare alla Frick Collection e fermarmi di fronte a un particolare Bronzino. A inalarlo, quasi».
Perché Eve è così arrabbiata?
«Da giovane aveva permesso al genio maschile di soggiogarla e ora è proprio quella parte di sé a chiedere vendetta. E dal momento che il metro con cui giudica la propria vita è il lavoro, sente il bisogno non solo di produrre una grande opera, ma che questa venga riconosciuta pubblicamente. È la sua ricompensa».
Qual è il prezzo che una donna deve pagare per esprimere se stessa?
«Alto. Lo dice piuttosto bene un libro che s’intitola Ninth Street Women e parla di cinque artiste americane degli anni ‘50 e ‘60 tra le quali ci sono anche Lee Krasner ed Elaine de Kooning, conosciute quasi soltanto perché rispettivamente mogli di Jackson Pollock e Willem de Kooning. Di queste artiste, soltanto una ha avuto un figlio, e ha deciso di darlo in adozione».
In "Belladonna" ha descritto molto bene il desiderio sessuale di una donna non più giovane. Perché non ha voluto per Eve una relazione più appagante?
«Ho pensato che un rapporto senza complicazioni sarebbe stato meno coinvolgente. Inoltre, quello è proprio il punto in cui Eve è più fragile».
È la paura di invecchiare. La prova anche lei?
«Diciamo che la mia biografia non me lo permette. Quando avevo 29 anni mi sono ammalata gravemente, perciò da allora ogni compleanno è una festa, un traguardo. Sono felice di esserci e trovo che essere vecchia sia interessante. Il mio viaggio non ha mappe, scopro sempre cose nuove e accumulo nipoti».
Per Eve, invece, la maternità è un impedimento al lavoro.
«Sì, e sembra qualcosa di innaturale, ma a volte capita: molte donne, nonostante il legame fortissimo con il proprio figlio, covano del risentimento per non potersi dedicare pienamente al lavoro. Eve è diversa ancora, del tipo che non tollera proprio il fatto di essere madre. Personalmente è una cosa che fatico a capire: non ho potuto avere figli, ma la mia vita è piena di bambini, e per me sono molto importanti».
Le manca mai il suo lavoro di giornalista?
«È stato un periodo bellissimo. Quando ho iniziato nelle redazioni le donne erano una rarità, quando me ne sono andata eravamo la metà. Credo di averlo fatto al momento giusto: l’idea di dovere postare i miei articoli su Twitter mi avrebbe riempito di orrore».
Quali incontri l’avevano colpita di più? A parte quello con suo marito, ovvio.
«Ho avuto il privilegio di intervistare Arthur Miller a New York, due ore intere con lui, conservo ancora la registrazione. E anche Doris Lessing. Poi c’è stato Pavarotti, ma non andò benissimo».
Perché?
«Si trattava di una rubrica di interviste di 5 minuti a gente famosa che passava per Londra. Mi sono ritrovata in fila fuori da una stanza di hotel assieme a molte altre persone, tutte in attesa di essere ammesse al cospetto del grande uomo. Quando è arrivato il mio turno, abbiamo parlato per tre minuti. Non è stata una vera conversazione, e poi lui era terribilmente annoiato».
Lei conserva anche un’altra registrazione, quella della prima intervista che fece a suo marito, ma so che non la ascolta mai. Ricorda cosa vi siete detti?
«(Ride) Ai tempi, gestivo le pagine di arte e letteratura del Financial Times. Ian aveva appena scritto un libro per ragazzi che avevo trovato bellissimo e così avevo chiesto di poterlo intervistare, ma poi me ne ero pentita perché in quei giorni avevo un sacco di altre cose da fare. Quindi ho attraversato la città pensando a chi me lo avesse fatto fare. Appena arrivata, lui mi ha scambiata per la responsabile dei libri per ragazzi. Io mi sono messa a ridere. Abbiamo avuto una conversazione molto vivace, non so come siamo finiti a parlare di Darwin. A un certo punto, il suo ufficio stampa ha bussato annunciando il giornalista successivo. "Digli di aspettare", ha detto lui. Non ho più riascoltato quel nastro, ma non sono la sola: abbiamo un amico che ha conosciuto la moglie intervistandola per l’Economist. So per certo che nemmeno lui l’ha mai più ascoltato».