Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  giugno 26 Sabato calendario

L’allarme di Gilles Kepel

Ha trascorso il 2020, come tutti, senza viaggiare. Gilles Kepel, grande esperto d’integralismo islamico, ha potuto prendere un po’ di distanza rispetto alla situazione nella sua Francia e in Europa, da una parte, e nel mondo arabo, dall’altra. L’analisi è contenuta nel suo ultimo libro (Il ritorno del profeta, sottotitolo: Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente), appena uscito in Italia per Feltrinelli. Diciamolo subito: Kepel, 65 anni, docente all’Ecole Normale Supérieure e all’università italiana di Lugano, non è ottimista. «Sono realistico – precisa -: non mi faccio illusioni». Punta anche il dito su quel modello laico alla francese che scricchiola, «sull’estrema sinistra che in gran parte guarda ormai agli integralisti islamici come ai rappresentanti degli oppressi».
Analizzando gli ultimi attentati in Francia e altrove in Occidente, lei individua un nuovo tipo di terroristi islamici. Parla di «jihadismo d’atmosfera». Che cosa significa?
«Esiste una differenza rispetto alle generazioni precedenti, quelle di Al Qaeda e di Daesh. Lì c’erano due gruppi organizzati. Al Qaeda era piramidale, quasi leninista, con gli ordini che erano impartiti dall’alto. Nel caso di Daesh le reti funzionavano via Internet e i social: anche lì delle persone, soprattutto dalla Siria, inviavano ordini. Se si guarda alla serie di attentati vissuti nello scorso autunno in Francia, ad esempio l’assassinio di Samuel Paty, il professore decapitato, la dinamica è cambiata».
In che modo?
«Oggi ci sono i "fomentatori di rabbia", che sul web e sui social identificano degli obiettivi. Non condannano necessariamente queste persone a morte, ma le coprono d’insulti, dicono che hanno la fobia dei musulmani. Nel caso di Paty, iniziò il padre di una sua allieva. E così emergono soggetti che non sono legati ai "fomentatori", ma sono entrati in una logica jihadista, frequentando una moschea radicale o sulla rete. Ebbene, passano all’azione su quegli obiettivi designati».
Come prevenire il fenomeno?
«È più difficile, anche perché quest’atmosfera jihadista non è necessariamente perseguibile da un punto di vista penale. Si tratta di una battaglia culturale e politica. È quello che spiega Emmanuel Macron, quando punta il dito contro il separatismo islamista».
Il presidente ha voluto anche una legge contro questo fenomeno: le sacche di islamismo potenziale, che si creano nella società francese e talvolta, secondo alcuni osservatori, con la complicità di una certa sinistra. Ma lei ci crede davvero all’esistenza di un «islamogauchisme»?
«Sì, l’ho visto crescere pure all’università. L’estrema sinistra, alla quale appartenevo quando ero studente, considerava che gli integralisti islamici fossero dei fascisti. Oggi, invece, una grossa parte dello stesso schieramento li considera alleati, rappresentanti degli oppressi. Un grosso errore…».
Nel libro lei fa diversi paralleli con la pandemia…
«I fomentatori della rabbia "contaminano" più facilmente chi ha già qualche debolezza, psichica o di altro tipo, così come il coronavirus le persone che hanno "comorbidità", vale a dire più patologie. Il ceceno che ha ucciso il professor Paty era già succube di un’assuefazione alla violenza, erede del jihadismo del Caucaso. Ma anche se si guarda alla legge contro il separatismo, voluta da Macron, questa impone controlli e limiti alla libertà in nome di una maggiore sicurezza. Come le limitazioni ai viaggi del Covid o l’imposizione delle mascherine, sono misure necessarie».
Passando a un livello geopolitico, la combinazione fra pandemia e crollo del prezzo del petrolio ha portato a un grosso cambiamento nel Medio Oriente, anche per il jihadismo…
«Il calo delle tariffe degli idrocarburi (che nel frattempo sono ritornati su) ha favorito l’alleanza tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, che vogliono accelerare il superamento del modello della rendita petrolifera, sfruttando anche le tecnologie israeliane. Sono gli accordi di Abramo. È nato un blocco di Paesi vasto, che comprende pure Usa, Bahrein, Sudan e Marocco. Si oppone a quella che chiamo la Triplice "fratellanza-sciita" (fréro-chiite), vettore dell’integralismo».
Da chi è composta?
«Dalla Turchia di Erdogan, dall’Iran e dal Qatar, con Hamas come punta di diamante. Si è rotto il tradizionale divario tra sciiti e sunniti. La demarcazione è fra chi è vicino o contrario ai Fratelli musulmani, che sono il collante tra Turchia e Qatar, ma che sono stati anche un modello per il regime iraniano. Khomeini e i suoi discepoli avevano letto fin dagli inizi le opere di Hasan el-Banna e di tutti i teorici dei Fratelli musulmani. Questi non sono mai stati né sciiti, né sunniti: hanno avuto sempre una visione dell’islam politico, che andava al di là di quella differenza».
La «guerra degli undici giorni», il nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi del maggio scorso, è un sottoprodotto di questo nuovo contesto?
«Certo. Ha visto in azione Hamas, sostenuto da Iran, Qatar e Turchia».
La sua espressione, Triplice «fratellanza-sciita», ricorda la Triplice alleanza, che si trascinò fino agli inizi della Prima guerra mondiale. È casuale?
«No, il riferimento è voluto, perché l’eredità di quel conflitto resta molto presente. Ha fatto il Medio Oriente di oggi, imponendo le frontiere attuali. La Turchia ne sa qualcosa…».