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Biografia di Lucia Ronchetti raccontata da lei stessa
Mentre le osservo le mani, piccole e solide, lei le stringe e dice che la sua vita per un certo tempo si è svolta all’ombra del risentimento. Una forza, sgradevole e aggressiva, che l’ha tenuta in vita e che grazie alla musica è riuscita a disciplinare. Non so se sia una piccola confessione, del resto non richiesta, ma assomiglia alla punta visibile di un bilancio esistenziale in cui il passato è letto con sofferenza, come se ancora non trovasse un posto preciso nella scatola dei ricordi.
Lucia Ronchetti, 58 anni, due figli, un marito psicoanalista di scuola junghiana, vive nella parte popolare del quartiere Trieste. È stata nominata direttore della Biennale musica. È un po’ sorpresa: «Ho presentato un mio progetto e pensavo alla solita cosa all’italiana. Invece senza intermediazioni o pressioni, sono stata scelta per quel ruolo. Saranno quattro anni intensi e sperimentali». Lucia per mestiere compone musica e scrive le sue opere, a volte affidando il libretto a degli scrittori, altre facendolo in prima persona. Come nel caso di un’opera sull’Inferno di Dante commissionata dal teatro dell’Opera di Colonia. Lucia mi parla senza le prevedibili cautele (o sospetti) che di solito si instaurano tra due perfetti sconosciuti. Si sente a suo agio, o forse maschera qualche ansia. Non capisco. È lì seduta nell’ampia terrazza da cui si scorge una Roma poco barocca, mentre il cielo si riempie di pioggia. Le guardo ancora una volta le mani e lei mi dice che sono diventate così anche per via della boxe, praticata a lungo.
Non è facile trovare una donna con la passione attiva per il pugilato.
«All’inizio è stato difficile, non in quanto donna ma perché non riuscivo a trovare una palestra che non fosse
avvolta dalla retorica dei valori della destra».
Cosa le ha dato la boxe?
«Una certa euforia e la consapevolezza del limite. Fino a dove puoi farcela con le tue forze. Un po’ è stato così anche per la musica».
So che ha iniziato professionalmente tardi.
«Relativamente. Comunque non ero un enfant prodige, ma una trentenne con molti dubbi e scarse prospettive.
Però non è che fossi rimasta inerte. Ho ancora circa 300 opere scritte in gioventù e mai eseguite».
Lo dice come se le avesse sepolte.
«Vorrei solo che, una volta che non dovessi esserci più, questo materiale fosse bruciato.
Oddio, e perché mai?
«Perché da sola non ci riuscirei. Scrivo le mie composizioni a mano e sento che ogni pezzo è parte della mia vita. Il punto è che non mi riconosco più in quelle opere».
Allo stesso modo non riconoscerebbe più parte del suo passato?
«Forse è così, anche se mi rifiuto di pensarci. Ricordo che raccontai questa cosa a Luciano Berio e lui, con aria sorniona, disse: mandami questo reperto giovanile, ci penserò io a dargli nuova vita».
Lei crede alle prove di resurrezione?
«Fino a quando sono prove direi di no. Ma l’arte a volte può fare miracoli».
Pensa spesso alla morte?
«Mediamente un paio di volte al giorno. Quando mi sveglio e quando vado a letto».
Quando si sveglia che fa?
«Mi alzo di solito alle cinque. Alle sei sono già fuori, in strada. C’è un mercato popolare con un piccolo bar dove faccio colazione. Dopo anni di questo rituale mi conoscono tutti».
Cosa le piace di questa fase della giornata?
«Un’alba è fervida di energia, di progetti e di umanità. Per un essere poco sociale, come sono io, è il risveglio delle relazioni. Il fornaio, il netturbino, quelli che aprono i banchi o chi tira su la saracinesca del bar: è un mondo parallelo col quale mi identifico».
E poi che accade?
«Torno a casa e inizio a lavorare alle composizioni. Più o meno fino a mezzogiorno. Da quel punto in poi comincia la lunga decadenza della giornata».
Si lascia andare?
«È un lento perire che cerco di contrastare in qualche modo. Da un paio di anni ho sostituito la boxe con lo studio del cinese».
Funziona?
«Richiede una disciplina più mentale che fisica. Se non provassi a organizzare il caos, a dargli una forma, se mi lasciassi andare, non so se riuscirei a tornare dal regno dei morti».
Le sue origini sono romane?
«Sì, a lungo ho abitato nella periferia di Roma. Zona Laurentino, una palude edilizia da cui di solito la gente che vi abitava non usciva mai. È stata un’infanzia abbastanza squallida. Con genitori rissosi e insoddisfatti».
Suo padre che faceva?
«Era medico, ma soprattutto comunista. Aveva una clientela contadina e proletaria. Dai primi si faceva pagare in natura dagli altri era l’ideologia la sola merce di scambio. Sta di fatto che vivevamo poveramente. Sono cresciuta senza televisione e senza libri interessanti.
Tutto quello che ho letto è avvenuto in biblioteche pubbliche. Ma in casa avevamo una radio dove un giorno ascoltai un’opera di Bruno Maderna e ho capito che quella era la mia strada».
Beh, non si arriva a Maderna così, senza alcuna preparazione.
«La mia fortuna è stata una coppia di vecchietti che viveva alla porta accanto. Due musicisti falliti. Lui era stato un violinista e lei una cantante. Della loro vita non parlavano. Ma nel piccolo appartamento c’erano ancora tracce di vecchi strumenti, tra cui un clavicembalo in cucina, con tutte le corde di fuori. Da uno stanzino, lui aveva ricavato un laboratorio dove riparava orologi. Tutti i pomeriggi li trascorrevo lì, in quella casa piena di vecchi spartiti e cianfrusaglie, ma dove mi sentivo stranamente libera. Mi insegnarono le prime nozioni di musica. Alla fine di quelle lezioni improvvisate, come premio, avevo un cucchiaino di latte concentrato Nestlé».
Furono questi i suoi inizi?
«Sì, e quando a 16 anni ascoltai Maderna decisi che avrei fatto il compositore. In nessun altro luogo e tempo avrei voluto essere se non in quella musica rarefatta, dove anche il rumore acquista una sua importanza. Feci il conservatorio a Roma e per la prima volta scoprii cosa fosse questa città. Mi laureai in storia della musica. Poi un dottorato a Parigi all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, con François Lesure e l’impegno con Gérard Grisey».
Immagino un periodo molto proficuo.
«Ricordo i due maestri francesi; quando mi congedai Lesure disse che mi ringraziava per tutto il tempo che avevo trascorso con lui, perché nei quattro anni di frequentazione aveva imparato l’italiano. No, credo che la Francia possa essere molto traumatica per chi non ne conosce i meccanismi».
Cos’hanno di particolare?
«Da un punto di vista musicale a Parigi dominava la struttura piramidale. Al cui vertice c’era allora Pierre Boulez, una specie di monarca assoluto, un Luigi XIV del ventesimo secolo. Ogni dettaglio andava ricondotto alla sua visione. Dopotutto meglio alcuni maestri italiani.
Berio, Bussotti e soprattutto Sciarrino. Anche se il dialogo con Sciarrino è stato impossibile».
Ha un modo ben curioso di parlare dei suoi maestri.
«Eravamo incapaci di ascoltare. Ma questo non è di per sé un impedimento. Senza Sciarrino, senza le sue partiture, non avrei mai realizzato l’opera come poi l’ho fatta. E a proposito di maestri mi piace ricordare la figura di Hans Werner Henzel, il compositore tedesco che è vissuto a lungo in Italia. Avevo trent’anni, senza un lavoro stabile e con poche prospettive».
Quindi nella condizione di non aver niente da perdere.
«Seppi che viveva a Marino e gli spedii per posta una mia partitura. Qualche giorno dopo mi telefonò, mi invitò a casa sua e mi commissionò la prima opera. Il pezzo suscitò giudizi soprattutto negativi».
Come reagì?
«Non gradii, però ebbi per la prima volta la sensazione di essere trattata come una persona con un ruolo. Ero riconosciuta per quello che avevo fatto nell’ambito di una cosa per me fondamentale. Fino a quel momento mi ero mantenuta con il mestiere di bibliotecaria. Si apriva improvvisamente una nuova prospettiva».
Ma non in Italia, mi sembra.
«Per anni sono stata considerata un corpo estraneo. Solo
ultimamente ho realizzato opere in alcuni teatri italiani, come per esempio il Pinocchio. Gran parte della mia produzione è stata rappresentata in Germania, negli Stati Uniti e in Francia».
Come ha fatto a diventare direttore artistico della Biennale musica?
«Forse perché dopo i troppi no stanno arrivando anche i sì. Nel caso della Biennale mi ha contattato il presidente Roberto Ciccutto, senza conoscerci e senza mai esserci frequentati, mi ha detto che le mie idee gli piacevano, che ne avevano discusso e che, se volevo, l’incarico era mio. Sarà un’esperienza interessante da condividere con una squadra che mi è parsa straordinaria. Stiamo cominciando».
Intanto c’è l’Inferno di Dante.
«La prima sarà il 27 giugno, cioè domani, all’Opera di Francoforte. L’11 luglio ci sarà la versione filmica sia a Francoforte che a Spoleto».
Lei lavora molto con testi letterari. Come li sceglie?
«È un connubio che devo sentire nel profondo. Deve esserci qualcosa di perturbante. Quando ho allestito Il sosia di Dostoevskij, mi colpì il giudizio di Nabokov che vi coglieva il primo accenno di linguaggio joyciano. Ed effettivamente c’è in quel testo una sublime, torbida e sensuale mancanza di chiarezza. Dopo Inferno mi dedicherò allo Zibaldone di Leopardi. Proverò a mettere in scena la solitudine utilizzando cori, solo maschili, di anziani da un lato e omosessuali dall’altro. Categorie che conoscono il sentimento dell’emarginazione».
Quali sono le sue predilezioni musicali?
«Non credo nella storiografia musicale ma nelle singole figure, sì. Francesco Cavalli, Claudio Monteverdi, Gesualdo da Venosa e poi Dalla Piccola, Sciarrino, Georg Friedrich Haas».
Tra il madrigale e la musica postdodecafonica.
«Un ponte che si salda attraverso la citazione».
Condivide l’idea che il 900 musicale sia Debussy contro Stravinskij? Cioè impressionismo contro precisione.
«Ma Debussy non era impressionista, senza di lui non vi sarebbe stata la musica concreta, cioè la musica elettronica degli anni ’50 quando oltretutto ci si comincia a porre il problema se si può descrivere il silenzio».
John Cage lo ha teorizzato.
«È stato indiscutibilmente un grande precursore. Sarà una delle presenze della Biennale».
Le toglierà molto tempo questo nuovo impegno.
«Ripagato ampiamente da quello che saprò e potrò fare. Considero questo incarico anche una forma di riconciliazione con il mio paese».
Non è un po’ eccessiva?
«No, lo penso sapendo oltretutto che è qualcosa che si può fare limitatamente nel tempo».
E dopo?
«Sparirò o tornerò ai miei spartiti».
C’è sempre questa precarietà che l’accompagna. Non è riuscita a liberarsene?
«È come il salto sociale. Non sono mai riuscita a farlo davvero. Mi trascino dietro tutto quello che un tempo sono stata. E vivo con difficoltà il dovermi calare in nuovi ruoli».
Intende ruoli prestigiosi.
«Vanno bene ma ne temo gli effetti».
Non capisco.
«Non riesco ad esempio a stare in un albergo a 5 stelle».
Poco male.
«Sì, ma la gente non capisce, pensa sia una forma di snobismo».
Pensa ancora di voler bruciare i suoi spartiti giovanili?
«Non posso cambiare idea in due ore».
Sparire, cancellare, bruciare. Si torna al pensiero sulla morte.
«È un sentimento che mi accompagna ma senza che io lo viva tragicamente. Dopo il comporre, la mia più grande passione è dormire. Spegnere il fardello delle emozioni e addormentarmi. Certe volte mi chiedo se davvero avrei voglia di restare in vita se non riuscissi più a comporre».
Si è data una risposta.
«Dormire è un buon compromesso tra la veglia e l’eternità».