Il Messaggero, 26 giugno 2021
Un saggio-inchiesta sull’Obolo di San Pietro
I cattolici che martedì 29 giugno verseranno la loro offerta all’Obolo di San Pietro, la colletta mondiale dei fedeli che ogni anno fa arrivare decine di milioni di euro direttamente al Papa, dovrebbero interessarsi di più al destino di quei soldi. Perché solo una minima parte, come vuole la tradizione, finiscono nelle attività caritatevoli di Francesco. Quei soldi in massima parte servono a mantenere in piedi la Santa Sede, il governo della Chiesa universale e a dare sostanza al potere politico del Vaticano, quel soft power esercitato in tutto il mondo a partire dall’Italia, come dimostra la vicenda delle rispettose proteste sul Ddl Zan.
GLI INVESTIMENTI
Ma quanti di quei denari vengono usati in trasparenza? Quanti di quei milioni di euro donati – in verità sempre meno, negli ultimi dieci anni – vengono impiegati in attività alte? Forse è giunto il tempo che i munifici sostenitori dell’opera cattolica chiedano conto delle scelte di investimento compiute e dei criteri di selezione delle persone chiamate a gestire quelle ricchezze, sia esterne sia interne alle gerarchie vaticane. Intanto farebbero bene a leggere I mercanti nel tempio – Inchiesta sull’Obolo di San Pietro e i fondi riservati del Vaticano, il saggio-inchiesta scritto da Mario Gerevini e Fabrizio Massaro. Scoprirebbero verità scomode, che talvolta si preferisce non sapere, ma che invece è bene che vengano conosciute, innanzitutto da chi crede e sostiene, donando, la funzione universale della Chiesa e il magistero del pontefice.
Scoprirebbero che in appena otto anni i circa 600 milioni di euro nelle casse dell’Obolo (e dei fondi vincolati) affidati alla Segreteria di Stato sono stati dilapidati in operazioni opache, gestite in maniera parrocchiale, senza approfondimenti né conoscenze tecniche, con consulenti improvvisati, senza alcuna valutazione seria dei rendimenti (pochi, se non nulli) e dei rischi (altissimi, in particolare dal punto di vista reputazionale), in speculazioni immobiliari che non sono alla portata né nella logica del Vaticano, come l’acquisto dell’ormai famoso palazzo a Londra in Sloane Avenue, costato complessivamente circa 350 milioni di euro e con perdite che – per ammissione dello stesso numero uno dell’Apsa, monsignor Nunzio Galantino – vanno da 73 a 166 milioni di euro. Il conto finale delle perdite lo si saprà solo alla fine, quando e se l’immobile verrà venduto. Ma intanto quell’affare ha rivelato un modus operandi dentro il Vaticano che sembrava superato dopo gli scandali dello Ior di Paul Marcinkus, e ormai distante dai criteri moderni di amministrazione economica.
Invece, più di quarant’anni dopo, siamo ancora lì. Fatto rilevante, per la prima volta uno scandalo vaticano finisce sotto la lente di due giornalisti finanziari, che non si lasciano distrarre dalle cordate tra prelati, delle lotte intestine del Vaticano, ma seguono i soldi. E soprattutto vanno a cercare i personaggi – talvolta improbabili – ai quali la Segreteria di Stato vaticana, in particolare la Sezione Affari Generali guidata dal futuro cardinale Angelo Giovanni Becciu con monsignor Alberto Perlasca come braccio destro e uomo della finanza, si è affidata.
ROMANZO POLIZIESCO
La vicenda degli investimenti del Vaticano è quanto mai intricata e ancora, dopo quasi due anni di indagini, l’inchiesta dei promotori di giustizia del Papa non si è chiusa (sembra manchi poco, ormai). Ma i due cronisti del Corriere della Sera la raccontano e in molti punti ne svelano retroscena inediti (e talvolta incredibili, anche se è tutto documentato) in maniera limpida, facile da seguire, anche per chi non è avvezzo alla finanza. Il passo è quello del romanzo poliziesco e al lettore viene offerto lo stesso punto di vista dei giornalisti che giorno dopo giorno, fonte dopo fonte, documento dopo documento, trovano nuovi indizi.
Arrivano così per primi a questo sconosciuto broker molisano trapiantato a Londra, Gianluigi Torzi, al quale la Segreteria di Stato si era affidata per liberarsi del precedente gestore del palazzo, il finanziere Raffaele Mincione, che a sua volta aveva trascinato il Vaticano in operazioni spericolate come la scalata a Banca Carige o alla società di fibra ottica Retelit. Ma rivelano anche i rapporti economici che legano l’uno all’altro, con Torzi che finanza parte della scalata alla banca ligure e il secondo che usa i soldi incassati dal Vaticano per rimborsare il prestito. Scovano il gestore segreto del Vaticano, tale Enrico Crasso, che per oltre trent’anni, nel silenzio più assoluto, ha avuto in mano gran parte del tesoro dell’Obolo. Con il suo fondo maltese Centurion e i soldi del Vaticano, aveva investito negli occhiali di Lapo Elkann o nella produzione del film su Elton John, Rocketman, con i nipoti di Marta Marzotto, ma anche finanziato con 4,5 milioni la società romana Bdm Costruzioni e Appalti della famiglia Marronaro.
Insomma, soldi messi dove capitava, o dove faceva comodo. Scovano il gestore del conto personale del Papa presso Ubs e il finanziamento per 50 milioni di un’università in Giordania. Svelano i retroscena della trattativa sul palazzo di Londra, gli errori di monsignor Perlasca che senza l’assistenza di un avvocato mette la sua firma su un affare da oltre 300 milioni. Ma anche quelli del successore di Becciu come Sostituto alla Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra – di fatto, il numero tre del Vaticano – che avalla per mesi la trattativa con Torzi per la sua uscita di scena e alla fine versa 15 milioni nelle sue tasche, salvo poi considerarla una estorsione. E anche il coinvolgimento dello stesso Bergoglio nella questione del palazzo.
LE PERDITE
Se ci saranno reati o se si è trattato – come l’hanno definita gli autori del libro – di circonvenzione di inadeguati lo decideranno i giudici vaticani. Resta l’amarezza suscitata da centinaia di milioni sprecati che avrebbero potuto sostenere la missione della Chiesa, svilupparla meglio, fare del bene. Invece in Vaticano è arrivata la tempesta perfetta: le perdite finanziarie da un lato, il Covid dall’altro, che con i Musei Vaticani chiusi per mesi, ha prosciugato le entrate da turismo, prima fonte di ricavo per lo Stato Pontificio. Risultato? Almeno 260 milioni di euro di deficit tra il 2016 e il 2021, secondo i calcoli contenuti nel libro.
E l’Obolo? Negli ultimi anni si è dimezzato: dai 100 milioni di inizio decennio ai 40 milioni scarsi del 2020, secondo le indiscrezioni di Gerevini e Massaro. Dal successo della raccolta dell’Obolo del prossimo martedì dipende buona parte delle attività future della Santa Sede: una ragione in più per i fedeli generosi per pretendere quella Chiesa casa di vetro che i nuovi vertici finanziari vaticani hanno più volte promesso.