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 2021  giugno 25 Venerdì calendario

La cryptoeconomy non è solo il bitcoin: ethereum vale il 17%


Quello delle criptovalute è un mondo ballerino. Almeno dal punto di vista delle quotazioni. La capitalizzazione delle cryptocurrency, a metà aprile scorso, è arrivata a valere 2.542 miliardi di dollari. Ieri viaggiava intorno ai 1.360 miliardi. Cioè circa 1.182 miliardi in meno. Il bitcoin, dal canto suo, sempre due mesi fa, aveva oltrepassato i 64.100 dollari a fronte dei 34.00o cui quotava nell’ultima seduta. È chiaro che, di fronte a simili numeri, gli allarmi e i moniti alla cautela, da parte di authority e istituzioni, verso gli investitori sono necessari. Soprattutto quando, come nel caso dei criptoasset, si innescano meccanismi quali il Fomo (Fear of missing out). Cioè: a fronte della sempre maggiore diffusione del fenomeno, da un lato nasce la paura nell’operatore retail (spesso inesperto) di rimanere fuori dalla corsa all’oro; e dall’altro, visti i crolli, l’oro può trasformarsi in carbone.
Certo: contano diversificazione del rischio e tempistica nell’investimento. Se, ad esempio, un soggetto avesse iniziato l’operatività già solamente in avvio del 2021 potrebbe vantare, rispetto al bitcoin, una performance positiva di circa il 16,2%. E questo nonostante i recenti scossoni. Ciò detto, però, è innegabile che l’alta volatilità delle cryptocurrency (già di per sé un rischio) è spesso legata a variabili effimere. Un esempio? I twitter di Elon Musk e l’andamento di dogecoin. Quest’ultima è una criptovaluta, nata per gioco, che è entrata nel mirino del visionario (e contestato) imprenditore. Il token digitale, a inizio gennaio, quotava praticamente a zero. Grazie ai “cinguetti” di Musk, che vanta 57,4 milioni di follower su Twitter, è arrivata a 0,73 dollari per poi, sempre in scia ai cripto messaggi del patron di Tesla, tornare ai 0,24 dollari di ieri. Un bel saliscendi che, al di là delle correlazioni con il bitcoin, pone il tema dell’eventuale ipotesi di manipolazione dei mercati.
Già, l’ eventuale manipolazione dei mercati. A ben vedere, la questione delle regole (mancanti) trascende il caso in questione. I criptoasset, per la loro natura digitale, sono globali. Ad oggi, invece, non solo mancano normative sovranazionali (il regolamento Ue “Mica” è atteso per il 2024) ma gli stessi Stati (salvo eccezioni) non hanno leggi ad hoc. Con il che il rischio è, da una parte, che le authority siano impotenti; e, dall’altra, che quando le regole arriveranno l’innovazione tecnologica le avrà già superate. Non solo. «Altra sfida importante – spiega Henri Arslanian, PwC Crypto Leader and Partner – è l’educazione», la conoscenza. Le stesse quotazioni dei cripto asset lo dimostrano. Il bitcoin, da inizio anno, ha perso circa il 46,7%. Ether, il token digitale scambiato sulla blockchain Ethereum, guadagna invece intorno al 167,7%. La medesima dinamica si riscontra rispetto al peso stesso delle due cryptocurrency sulla market cap globale: al primo gennaio il bitcoin valeva il 70,6% mentre oggi viaggia intorno al 47%; ether, invece, è passato dal 10,7 all’intorno del 17%. Insomma: i numeri mostrano la diversità nel mondo cripto. Normalmente si tende a ricondurlo al bitcoin. Invece ha molteplici articolazioni. La catena di blocco di Ethereum, ad esempio, è considerata interessante per i cosiddetti “smart contract”. Contratti automatici che, in futuro, potranno disintermediare molteplici attività e professioni. Cosa ben diversa dal bitcoin il quale, invece, si propone quale asset d’investimento e riserva di valore. Come saperlo? Beh, è necessario studiare.