la Repubblica, 24 giugno 2021
La rivincita di Wembley
C’è stato un tempo in cui le squadre di calcio non erano pianeti distanti e inaccessibili, ma ambienti che nelle ore successive alle finali, quando la necessità di concentrazione veniva meno, ci fosse da festeggiare o da rosicare lasciavano comunque le porte socchiuse alle facce che li accompagnavano durante l’anno, tifosi, cronisti, amici, spesso un mix delle tre categorie. Così alle due del mattino del 21 maggio 1992 il portiere del Park Lane Hotel di Londra fece finta di nulla quando alcuni di noi, esauriti i servizi da Wembley – dove la Sampdoria aveva perso ai supplementari la finale di Champions col Barcellona – fecero capolino nella hall del prestigioso albergo di Knightsbridge, oggi passato alla catena Mandarin. Il paesaggio di sconfitta era desolante anche nelle sale austere, dal bar ancora aperto al ristorante che stava preparando i coperti per la colazione del mattino. C’era Paolo Villaggio affondato in una poltrona con lo sguardo inebetito del tifoso disilluso, c’era Arnaldo Bagnasco – grande uomo di cultura della Rai – che con un’oratoria degna del personaggio intratteneva alcuni conoscenti sull’amaro destino degli innamorati doriani, e spingendosi un po’ più dentro l’albergo si arrivava a scorgere Luca Vialli seduto sui primi gradini della scala che portava ai piani, l’immagine del campione spezzato dall’occasione mancata. Attorno a lui alcuni compagni dovevano aver provato a rincuorarlo fino a poco prima, perché adesso erano silenziosi – qualche bottiglia vuota di birra accanto a loro che un po’ faceva a pugni col mobilio Chippendale, ma vabbè – presenti per solidarietà malgrado occhi ormai liquidi di stanchezza. Vialli aveva sbagliato due palle-gol, quella sera, e siccome si sapeva che era stata l’ultima sera con la Samp – il giorno dopo sarebbe stato annunciato il suo passaggio alla Juventus – il magone suo e dei suoi sodali era al quadrato. L’ultima notte avrebbe dovuto issare quella generazione doriana sul tetto d’Europa, la chiusura perfetta di una parabola cui Paolo Mantovani, consapevole di non avere più molto tempo, voleva addolcire la discesa rinunciando al pezzo più pregiato in cambio di alcune giovani promesse.
Roberto Mancini non era su quegli scalini. Impazzito di rabbia contro l’arbitro Schmidhuber, reo di aver concesso al Barcellona la dubbia punizione che Koeman aveva convertito nel gol-partita, a fine gara gliene aveva dette di tutti i colori, tanto che l’Uefa l’avrebbe squalificato per quattro giornate. Rivisto l’episodio oggi, Mancini aveva abbastanza ragione. Ma la rabbia che s’era portato in camera – una notte a sbollirla in privato anziché girare per i corridoi a strappare le tappezzerie: all’epoca ne sarebbe stato capace – non riguardava soltanto l’arbitro. Era rivolta anche a se stesso, perché Roberto aveva giocato male e questo non se lo poteva perdonare. Non la partita più importante della storia della sua amatissima Sampdoria.
Wembley è completamente cambiato da quel 1992, il suo tratto distintivo è diventato l’anello- aureola laddove prima le due torri che delimitavano l’access o alla tribuna centrale davano all’insieme il celebre segno vittoriano. È cambiato anche Mancini, riflessivo al punto da pianificare minuti per tutti (coraggio Meret, se le circostanze aiuteranno qualcosina arriverà) per evitare la tristezza dello zero alla casella presenze che toccò a lui nel 1990. A Wembley, sabato il ct chiederà alla Nazionale un’altra delle rivincite che si sta prendendo sul suo passato azzurro. In realtà sia Vialli che lui ci hanno poi vinto, le due coppe d’Inghilterra che Luca ha conquistato da manager del Chelsea (1997) e Roberto del Manchester City (2011). Ma se è un’illusione pensare che le vittorie cancellino le sconfitte – qualunque campione te lo racconta: il male di perdere non va via mai, al massimo viene spostato in un angolino della tua mente – esistono compagni d’avventura diversi dagli altri, quelli con i quali vincere assume un significato simbolico. Se Mancini ha voluto accanto a sé in Nazionale uno staff di vecchi amici dei tempi della Samp, non è stato per passare le serate a fare il karaoke delle hit anni 80. Li ha voluti perché se qualcosa dovesse andar male non ci sarà la penosa corsa a differenziare le proprie posizioni che si vede in certe situazioni (pensate ai distinguo ex post di Tudor sulla gestione tecnica della Juve di quest’anno), e perché la compattezza è propria delle squadre in missione. E questo ritorno a Wembley tutti assieme la porta alla luce.
Il 20 maggio 1992 c’era anche Attilio Lombardo in campo. Fu lui a servire a Vialli l’assist della prima palla-gol, e giureremmo che ci fosse ancora lui a rincuorare il suo centravanti sulla scala dell’hotel, nell’alba livida del giorno dopo. C’era Giulio Nuciari, seduto in panchina a fare il dodici di Pagliuca. Non c’era Fausto Salsano, che in quegli anni aveva provato a giocarsi la carta della Roma ma che di lì a poco sarebbe tornato in riviera: non c’era o magari c’era, niente di più facile che fosse venuto a tifare per gli amici dalla tribuna. E poi c’è Vialli, nel cuore della rivincita di cui Wembley potrebbe essere teatro: sabato contro l’Austria, e magari più avanti.
Quattro anni dopo il maggio ’92 Luca alzò la coppa nel cielo di Roma con la maglia della Juventus, e dunque il debito con se stesso venne saldato in tempi brevi. Ora che i tempi sono lunghi c’è in ballo quello con i vecchi amici, e i ruoli si sono ribaltati: con la responsabilità delle scelte il Mancio è diventato l’uomo-gol, Vialli deve servirgli gli assist costruendogli attorno – come sta facendo – un ambiente perfetto. Il colpo di tacco di Roberto a bordo campo, nella gara col Galles, ha fatto il giro del mondo per la sua potenza evocativa di un passato di gloria e di stile. Mentre lo riguardate, però, non perdetevi il sorriso che si allarga sul viso di Luca, perché contiene un senso del tempo ritrovato che commuove. Non sono solo partite di calcio.