«Eravamo in cucina, intenti a pranzare. Suonarono alla porta. Andò ad aprire mia madre, Gabriella. “Pino, è la Finanza”. Papà chiuse gli occhi. Aveva capito. Erano le tredici del 20 maggio 1981 e la nostra vita cambiò per sempre».
I terroristi si erano travestiti da finanzieri?
«Solo uno, Gianni Francescutti, che sull’uscio esibì un falso decreto di perquisizione. Erano in quattro, entrarono. Mia madre chiese: “Volete un caffè?”, per tutta risposta due di loro tirarono fuori dalla borsa le pistole: “Brigate rosse!”, annunciarono. Portarono papà nel salotto. In cucina rimanemmo io, mamma e mia sorella Bianca, che aveva vent’anni e studiava psicologia».
Lei quanti anni aveva?
«Diciotto. Ero all’ultimo anno del liceo scientifico Parini e sono l’ultimo testimone di questa storia: mamma e Bianca sono morte».
Cosa si pensa in quei momenti?
«Bianca scoppiò a piangere. “Non fate male a mio padre”, dissi ai due terroristi che erano rimasti con noi a vegliarci in cucina. “Tu non hai capito chi siamo”, si fece minaccioso uno di loro, e mi diede un buffetto. “Stiamo calmi!”, ci ammonì allora mia madre».
I terroristi al processo raccontarono che si cucinarono un piatto di spaghetti.
«Sì, c’è agli atti, ma posso escludere che l’abbiano fatto, perché in cucina c’ero io. È un’affermazione sconcertante, che non depone della loro attendibilità».
Chi era suo padre?
«Giuseppe Taliercio, 54 anni, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, allora uno dei maggiori stabilimenti del Veneto con i suoi settemila operai».
Che famiglia era la sua?
«Molto sobria. Mamma e papà si erano conosciuti nell’ Azione cattolica a Marina di Carrara».
Perché le Brigate Rosse lo sequestrarono?
«Perché lo ritenevano, nel loro linguaggio di disumanità, “un servo delle multinazionali”».
Un simbolo del capitalismo?
«Il Petrolchimico, di proprietà della Montedison, era attraversato da molte tensioni. Era in corso una pesante ristrutturazione che papà aveva dovuto gestire, con 616 operai messi in cassintegrazione.
L’impianto era sotto accusa per l’inquinamento che produceva, infatti l’avevano ribattezzato “Mortedison”. E il terrorismo soffiava sul fuoco».
Un anno prima le Br avevano ucciso uno dei suoi vicedirettori, Sergio Gori.
«Sì, e già questo faceva di lui il prossimo bersaglio. Era convinto che gli avrebbero sparato per strada. Ripeteva: “Il massimo che possono farmi è uccidermi”».
Dove lo portarono?
«Nella mansarda di un appartamento di un operaio che fiancheggiava i terroristi, a Tarcento, in provincia di Udine. Ma questo venne fuori solo al processo».
Cosa avete saputo di come lo trattarono?
«Gli ruppero un incisivo. Mangiava pochissimo. Stava tutto il tempo chiuso in una tenda, le mani legate con delle catene, alle orecchie gli avevano messo delle cuffie da cui veniva diffusa della musica. Lo interrogarono in due. Antonio Savasta, il capo, voleva sapere i segreti della Montedison, e se per davvero gli operai venivano schedati. Mio padre non aveva le risposte che loro cercavano. Furono colti da impotenza. Non avevano davanti l’aguzzino che avevano immaginato».
Scrisse delle lettere alla famiglia?
«Sì, ma poi le strappò».
Perché?
«Penso che non volesse esporre i suoi sentimenti più intimi dinanzi ai carcerieri».
Come trascorsero i 47 giorni del sequestro?
«Le Br cominciarono a fare uscire dei comunicati. Coltivavamo sempre la speranza che potesse farcela. Ricordo che pensai: “Papà è un uomo mite, non si fa del male a un uomo così”. Però proprio questo sua mitezza alla fine deve avere scatenato la loro bestialità».
I giornali diedero poco spazio alla vicenda.
«Vigeva la regola del silenzio. Non si voleva fare da cassa da risonanza ai terroristi. Ci dicevano di stare tranquilli, la Rai si rifiutò persino di pubblicare un nostro appello ai terroristi».
Vi siete sentiti soli?
«Col senno di poi penso che avremmo dovuto fare un gesto eclatante, incatenarci a un cavalcavia. Abbiamo bussato a tante porte con la nostra disperazione, ma tanto aiuto non lo abbiamo avuto».
Quell’anno lei fece la maturità?
«Sì, l’orale il 18 luglio. Può immaginare in che stato».
Come andò?
«Presi 60/60».
Come seppe dell’uccisione di suo padre?
«Arrivò una telefonata di prima mattina. Era una cronista dell’Ansa. Rispose Elda. Mise giù la cornetta, la guardammo tutti interrogativi.
Disse semplicemente: “È andata male”. Diedi un calcio al letto». (
Si
commuove)
I giornali titolarono: “Taliercio come Moro”.
«Sono due vicende di uguale ferocia. Uomini uccisi a sangue freddo dopo che si è stati insieme nella stessa casa per settimane. A mio padre Savasta scaricò addosso sedici colpi. Ce lo fecero trovare rannicchiato nel bagagliaio di una 128, vicino al Petrolchimico».
Savasta sei mesi dopo si pentì.
Lo ha mai incontrato?
«No, no. Anni dopo scrisse una lettera a mia madre. Lei l’aveva previsto quando ritrovarono papà: “Verrà un giorno, tra dieci anni, se sarò ancora viva, nel quale chi ha ucciso mio marito verrà a chiedermi perdono”».
Non avete voluto funerali pubblici.
«Era un nostro dolore privato, come soli eravamo stati durante il sequestro. Telefonò Sandro Pertini, rispose Lucia e gli disse: “Presidente non vogliamo nessuno”. Pertini andò su tutte le furie. Poi mediò il suo segretario generale Antonio Maccanico e alla fine il presidente venne».
Gli arresti in Francia pongono la questione se ha senso ancora fare giustizia dopo quattro decenni.
«Non se ha ancora senso fare giustizia, so che dall’omicidio non c’è riparazione, e quindi bisognerebbe avere almeno il giusto disprezzo rivolto alle persone di allora, per quello che sono state. Non sempre lo scorgo in certi intellettuali».
Perché ha deciso di parlare solo adesso, dopo 40 anni?
«Perché vedo troppi seminatori di odio che si nascondono dietro le ideologie, specie sul web, dove c’è una violenza che mi spaventa, con gente che inneggia a Hitler. Le ideologie possono portare all’irreparabile».
Come vorrebbe che fosse ricordato suo padre?
«Non solo per come è morto, ma soprattutto per come ha vissuto, per i valori che ha incarnato e che ha cercato di trasmetterci. Finora era stata nostra madre che aveva sentito l’esigenza di rendere pubblica la testimonianza della vita di suo marito, ora che lei non c’è più siamo noi figli a dover raccogliere il suo testimone e a fare nostro quello che ci ha ripetuto tante volte: “Il rancore ci imprigiona, il perdono ci riapre alla vita”».