il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2021
Eleanor Roosevelt, storia di una statista
Con il libro che Rossella Rossini ha dedicato a Eleanor Roosevelt mi sono incontrato come con un amico.
Eleanor Roosevelt è la protagonista di una mia primissima vita americana, quando, poco più che ventenne, andavo a cercare e a scoprire il mondo che aveva cambiato il mondo. L’antifascismo era per me fondamentale e il mito (prima di tutto l’esperienza) della Resistenza aveva una radice profonda nel luogo che andavo a scoprire e dove, inviato da Adriano Olivetti, andavo a lavorare, cioè a interpretare la vita che avevo visto come liberazione. Da molti anni le mie letture e anche le conversazioni con Olivetti erano tutte americane.
La figura grande e diversa che aveva agganciato la nostra attenzione, fin da quando vivevamo la guerra stando dentro la guerra, era stata proprio la first lady del presidente Roosevelt. Non perché avesse quel ruolo, ma perché – come il libro di Rossini dimostra – era il caso raro (per la verità finora unico) di una intellettuale vicina al potere e di una limpida interprete contemporanea degli eventi, che sa, invoca, a momenti esige come se ne avesse il potere.
Pur essendo un giovane sconosciuto e appena arrivato come su un altro pianeta, nell’inverno del 1960, a New York, quella con Eleanor Roosevelt è stata la mia prima telefonata, la mia prima visita, il mio primo articolo (non ero lì per scrivere, eppure è cominciato così), il mio primo filo di rapporto personale e politico.
C’erano alcuni precedenti. Ne cito uno. Un giorno, il 12 aprile 1945 – la Liberazione era vicina, non era ancora arrivata – ho visto scritto con vernice nera a caratteri grandissimi sulla mia scuola “è morto un porco”. Era l’annuncio fascista della morte di Franklin Delano Roosevelt, un’offesa grave e stupida dei perdenti in fuga. A me è rimasta impressa perché era l’ultimo insulto sfuggito da quel grande contenitore d’odio che era il fascismo. E ha reso fortissimo il senso di coincidenza fra antifascismo, Resistenza e America democratica.
A New York, primo giorno, ho avuto fortuna. Mi sono imbattuto quasi subito in un contatto tramite il quale chiedere un incontro alla signora Roosevelt. È stata una telefonata accogliente e gentile che è diventata l’appuntamento di una mattina, poi di un intero giorno, e infine l’invito ad andare con lei a Hyde Park, la residenza privata dei Roosevelt, a vedere stanze, carte, un piccolo museo di lettere rabbiose che accusavano il presidente di essere ebreo e un pericolo per l’America (avevano ragione i nazisti – sostenevano quelle missive – gli Stati Uniti sarebbero caduti vittime della ‘lobby ebraica’). E le sedie e le poltrone preferite da Churchill o da Re Giorgio di Inghilterra.
Ma questa narrazione (che per me è stato un dono inaspettato e ha reso possibile, con un lungo articolo, il mio primo debutto sul Mondo di Pannunzio) non deve trarre in inganno.
La parte mondana o museale dell’incontro è stata brevissima rispetto alla narrazione dei colloqui, ai commenti sulle argomentazioni politiche relative a momenti cruciali, in particolare la decisione se entrare o non entrare nella guerra odiosa, fatta di invasione, dominazione, persecuzione, sterminio, del fascismo e del nazismo. (…) Il fascismo, diceva, era stato cancellato da milioni di vite umane, coloro che del fascismo erano state vittime, e coloro che erano morti per sconfiggere il fascismo. Su questo non c’era alcuna remora da ex first lady che certe cose non può o non deve dire, né cautele da ne diplomatica.
Diceva ‘fascismo’ per indicare il fenomeno complessivo che ha travolto l’Europa e poi il mondo a partire dagli anni Venti. Le importava poco far distinzioni sul nazismo o farne una questione di tedeschi e di italiani. Vedeva quel punto della vita europea (l’Italia, i fasci) dove tutto era cominciato, per dilagare subito, in tanti modi, in Europa.
Non era la moglie intelligente che si fa portatrice e divulgatrice dei valori di un marito ormai celebre. Da donna era gentile. Da militante era chiara e detestava le ambiguità. Le parole ‘progressista’ e ‘conservatore’ per lei dividevano il mondo. Non le sembrava possibile tornare indietro (la vera missione dei conservatori) visto che prima c’erano schiavitù, povertà e persecuzione. E dai progressisti esigeva moderazione, perché le sembrava impossibile la prepotenza per una buona causa.
Eleanor Roosevelt era una intellettuale che sapeva giudicare e progettare e vedeva le alternative e le trappole della storia: non andò per il sottile – “è stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto” – il suo giudizio sul tristemente famoso “Comitato contro le attività antiamericane” di Joseph McCarthy.