La Stampa, 23 giugno 2021
Intervista a Emma Dante
Parole che diventano oggetti, sensazioni che acquistano carne e ossa, pensieri che si trasformano in grida di battaglia. Emma Dante, palermitana, classe 1967, drammaturga e regista di cinema e teatro, ha un dono speciale. Parla di cose alte e complesse come se fossero semplici, trasforma la cultura in ricetta di sopravvivenza, trasmette la gioia del fare come antidoto alla depressione della morte. Con Le sorelle Macaluso guadagna il Nastro d’argento per il miglior film, regia, sonoro, montaggio e produzione, un trionfo che parte dal successo all’ultima Mostra di Venezia e arriva sull’orlo della prossima prova, Misericordia, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, sceneggiato con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. In mezzo la fase difficile del Covid: «Ne usciremo, pronti ad affrontare il nostro futuro di esseri umani, ovvero di fabbricanti di sogni. In quest’anno quella che più ci è mancata è stata la possibilità di sognare, siamo stati catapultati in una realtà luttuosa, senza l’opportunità di elaborarla. Ci siamo ritrovati davanti al mostro, senza strumenti: il cinema, il teatro, la musica, da sempre, come servizi sociali, ci aiutano a fronteggiare i problemi. Ci siamo depressi, è successo anche a me».
La vittoria ai Nastri è anche la vittoria di un film di donne, girato da una regista donna. Si stia finalmente raggiungendo la parità fra i sessi?
«C’è ancora tanto lavoro da fare, non bisognerebbe più dover sottolineare che un premio è attribuito a una donna. Dovrebbe essere un fatto ordinario. Se avesse vinto un uomo, nessuno lo rimarcherebbe».
Ripensando al film, che cosa le viene in mente oggi?
«E’ tanto che non lo riguardo. Amo rimettere le mani in quello che faccio, spesso riprovo gli spettacoli dopo averli rappresentati, ho bisogno di rianimare l’impasto. Con il cinema questo non si può fare, il film è lì, è una persona, con la sua identità, che ormai vive a prescindere da me, e io, a volte, mi sento quasi in soggezione».
In che cosa è differente il suo rapporto con il cinema rispetto a quello con il teatro?
«La sostanza è la stessa, ma la relazione è diversa. Penso a Shakespeare che, alla sua Ofelia impazzita, fa dire "noi sappiamo ciò che siamo, non ciò che potremmo essere". Ecco il cinema fa questo, ci fa sapere cosa potremmo essere. E’ il motivo per cui scrivo storie e mi addentro in certi labirinti».
La voce di Franco Battiato accompagna una delle scene più affascinanti delle Sorelle Macaluso. Perché l’ha scelta?
«Battiato era una persona molto riservata, quando ho chiesto la possibilità di usare la canzone lui stava già male e, per me, aver avuto l’assenso è stato bellissimo. Non lo conoscevo personalmente, ma, nella musica, è il mio mentore, uno dei più grandi poeti dei nostri tempi. Sono felice che sia nel film, in una canzone che parla appunto, di morte».
Un argomento che, nelle sue opere, è sempre molto presente. Perché?
«La morte c’è, non bisogna accantonarla, raccontarla è un modo per non averne paura. E’ vero, nei miei lavori c’è sempre, forse perchè ho perso presto persone che amavo, mia madre, mio fratello, sono stata traumatizzata da queste perdite premature. E poi l’esercizio della memoria è importante, bisogna ricordare chi se n’è andato, è nostro dovere».
Nella casa delle sorelle Macaluso gli uomini sono di sfondo, contano, invece, gli equilibri tra donne. Nelle case della realtà il numero dei femminicidi è sempre in aumento. Che ne pensa?
«Durante il lockdown c’è stata una media di 3 femminicidi a settimana, la tragedia continua, e la pandemia l’ha acuita. La mentalità di certi uomini continua a essere primitiva e selvaggia. Strutturalmente, dal punto di vista delle ossa e dei corpi, gli uomini sono spesso più forti di noi donne, per questo è a loro che bisogna parlare. Dobbiamo sensibilizzarli, rivolgerci a loro, e non alle vittime, che sono deboli e naturalmente impaurite»