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 2021  giugno 21 Lunedì calendario

Sulla Shell che deve ridurre le emissioni del 45%

Già alla fine degli anni 70 le società petrolifere sapevano del collegamento tra emissione di CO2 derivanti dal consumo di petrolio e gas naturale e il cambiamento climatico. La più grande multinazionale petrolifera al mondo, Exxon, lo sapeva già dal 1977. All’inizio degli anni 90 anche tutti i politici del mondo avevano chiarissimo il ruolo dei gas ad effetto serra come motori del cambiamento climatico se è vero che la Conferenza di Rio delle Nazioni Unite del 1992 chiese ai governi di adottare piani per ridurre le emissioni.
Nulla è stato fatto per un trentennio. A partire dal primo rapporto nel 1990 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) l’umanità ha bruciato la stessa quantità di combustibili fossili che aveva bruciato in tutta la sua storia precedente. I tempi però stanno cambiando a ritmi vertiginosi. Le società petrolifere cambiano nome una dopo l’altra per nascondere il loro peccato originale. La società norvegese Statoil ha deciso di rinominarsi Equinor in omaggio al sensibilità ambientalista del proprio popolo. Uno dopo l’altro i Governi occidentali, e non solo, prendono impegni sempre stringenti alla decarbonizzazione. L’Unione europea si è impegnata ad un taglio delle emissione del 55% rispetto al 1990.
A rafforzare la lotta al carbonio interviene anche la legge. La Corte costituzionale tedesca ad aprile aveva imposto al governo federale di legiferare in modo specifico su come intendesse tagliare le emissioni. Risultato: il governo Merkel ha approvato una legge per il clima che impegna la Germania a tagliare le emissioni del 65% rispetto al 1990, migliorando il precedente obiettivo del 55%. Anche in Italia un gruppo di associazioni ha recentemente fatto causa allo Stato invocando un taglio delle emissioni del 92% nel 2030 rispetto al 1990.
Ma il caso recente più clamoroso è stata la sentenza di una corte olandese contro l’anglo-olandese Shell: multinazionale petrolifera i cui investimenti hanno spaziato dall’Indonesia al Medio Oriente al Venezuela e che per mezzo secolo è stata tra le dieci aziende più ricche del Pianeta. A seguito di una causa intentata da alcune associazioni ambientaliste e 17mila cittadini, alla Shell è stato ingiunto di ridurre le sue emissioni del 45% non rispetto al consueto anno base 1990, ma rispetto al 2019. E non solo di ridurre le emissioni dai suoi impianti, ma proprio tutte le emissioni, incluse quelli derivanti dal consumo in tutto il mondo di prodotti derivati dal petrolio Shell (in gergo si chiamano tier 3 emissions). Se si tiene conto del fatto che Shell, con poco più di 80mila dipendenti, emette nel complesso quasi quattro volte l’Italia, si capisce bene la portata della sentenza.
I giudici olandesi fondano la sentenza sugli studi scientifici più accreditati, sul fatto che le emissioni non rispettano i confini nazionali e ledono i diritti umani, nonché sul principio di precauzione in particolare nei confronti dei residenti olandesi e ancor più di quelli della regione di Wadden, il cui territorio verrebbe completamente sommerso da un possibile aumento di 1,7 m del livello delle acque.
Non mi pronuncio sul fatto se sia giusto mettere sul banco degli imputati solo i produttori e non i singoli automobilisti che giornalmente si riforniscono alle pompe di benzina, se sia giusto prendersela con le singole aziende piuttosto che coi governi dove queste hanno sede, o se abbia senso incriminare Shell, piuttosto che anche altre società petrolifere, come quelle nazionali dei Paesi produttori, che emettono molto di più di Shell.
Il fatto è che politica, cultura, scienza e, adesso, anche il diritto stanno formando una coalizione contro le fonti fossili. Essa presenta dei rischi e delle opportunità. Dal mio punto di vista il rischio principale consiste nel fatto che la necessaria decarbonizzazione sia affidata esclusivamente alla logica di mercato, quindi alla tassazione del carbonio nonché agli incentivi ad investimenti di carattere remunerativo nelle rinnovabili. Ciò non tiene contro della dilagante povertà energetica, anche nel mondo occidentale, rafforzata dalla liberalizzazione del settore energetico, nonché della plateale ingiustizia rappresentata da incentivi a comprarsi macchine da ricchi come la Tesla. L’opportunità risiede nel fatto che queste cause potrebbero costringere i governi a scelte dolorose, ma necessarie, come il blocco a esplorazione e produzione di idrocarburi. Ciò consentirebbe di lasciare la quota prevalente di una produzione globalmente in calo a Paesi come Venezuela, Iran e Arabia Saudita, per i quali la rendita petrolifera rappresenta ancora un fondamento della tenuta sociale e dell’erogazione di un minimo di servizi pubblici.