il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2021
Terre rare, la dipendenza dalla Cina
L’uscita di scena di Donald Trump ha messo fine a un grande equivoco: senza il tycoon alla Casa Bianca, l’approccio degli Usa verso la Cina non è cambiato. Con la nuova amministrazione democratica la contrapposizione è perfino aumentata. “Non siamo vecchi amici”, ha detto Joe Biden al G7 in Cornovaglia parlando di Xi Jinping. La novità degli ultimi mesi è invece un inizio di saldatura tra l’Ue e Washington sul tema: processo non facile dato che l’anima filo-cinese in alcuni ambienti comunitari rimane forte, basti dire che Pechino è il primo sbocco all’export della Germania (100 miliardi di euro di beni venduti negli ultimi 12 mesi).
Trump era un convinto sostenitore delle dinamiche bilaterali. Biden, invece, si è fatto portatore di un’istanza di maggiore collegialità per formare un asse anti-cinese che vada dall’Europa fino all’Australia passando per l’India e le Filippine. È in quest’ottica che vanno lette le dichiarazioni della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen che, al termine dell’incontro col canadese Justin Trudeau e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha annunciato la novità: “Stabiliremo una partnership sulle materie prime. L’Ue intende diversificare le sue importazioni lontano da produttori come la Cina: vogliamo intraprendere un percorso di maggiore sostenibilità, contenimento dei danni ambientali e trasparenza sulle condizioni di lavoro”. Musica per l’establishment americano, ma l’uscita lascia perplessi.
Sia chiaro, l’intento è assolutamente condivisibile. L’attuale corsa all’elettrificazione, al di là dei benefici sul fronte dell’inquinamento, presenta infatti un grosso vulnus, quello di accrescere la dipendenza dalla Cina sul fronte della fornitura di alcuni metalli dai nomi stravaganti come neodimio, disprosio e terbio – solo per citare alcuni dei 17 componenti del gruppo delle cosiddette “terre rare” – che sono necessari per la produzione dei magneti e che vengono installati oltre che negli smartphone, nelle turbine eoliche e nelle batterie che alimentano le auto elettriche. Tanto dare l’idea, nel 2019, stando alle stime del US Geological Survey, gli Stati Uniti hanno importato l’80% di terre rare dalla Cina. L’Ue addirittura il 98%.
L’aspetto interessante è che nonostante il nome, di terre rare nel sottosuolo in realtà ce ne sono in larga quantità. Il problema riguarda il processo di estrazione e raffinazione, molto inquinante, al punto da spingere i paesi occidentali ad abbandonarne la produzione, che ora la Cina può sfruttare a suo vantaggio. Allentare il regime di dipendenza dalle forniture cinesi significa, dunque, ristrutturare in toto la filiera. Gli americani sono già un passo avanti: grazie a importanti sovvenzioni statali, la compagnia di estrazione MP Materials ha annunciato di poter iniziare la produzione di terre rare provenienti dalla miniera di Mountain Pass già dal 2023. Molto attiva è anche l’australiana Lynas che si è aggiudicata diversi appalti col governo federale tra cui la costruzione di una raffineria di minerali nel Texas per scopi militari. E in Europa? Bernd Schafer, Ceo del consorzio “EIT Raw Materials”, ha detto il mese scorso che un piano d’azione sarà presentato a breve.
La cautela è d’obbligo. Come si concilia infatti lo zelo sulle tematiche ambientali adottato dalla Ue col reshoring (il rientro) della produzione di materiali altamente inquinanti? Non si concilia affatto, al punto che, secondo gli analisti, è probabile che l’Europa continui a importare materie prime e semilavorati per concentrarsi più sul riciclo che, nel migliore degli scenari possibili, potrà arrivare al massimo a soddisfare il 20-30% della domanda europea entro il 2030. Un passo avanti rispetto alla totale dipendenza attuale verso Pechino ma assolutamente insufficiente ad affrancarsene del tutto.
La Cina ha bollato le conclusioni del G7 come “parole da guerra fredda”. Un avvertimento a Bruxelles: il decoupling dalle forniture cinesi di terre rare comporterà quasi certamente la ritorsione sul fronte delle importazioni. Non solo: l’adesione da parte della Ue al programma di sanzioni al fine di promuovere le democrazie liberali esporrà le aziende europee a conseguenze legali in Cina, dove proprio due settimane fa è stata varata una legge che prevede il rifiuto del visto, il divieto di ingresso, l’espulsione e il sequestro di beni a individui o imprese che aderiscano alle sanzioni straniere.
Siamo pronti ad affrontare questo scenario? Il timore è che, alla fine, alle belle parole non seguiranno i fatti.