Corriere della Sera, 20 giugno 2021
Il c.t. Mancini la pensa come De Gregori
Verratti ancora con il tutore al ginocchio destro, ma contro i gallesi gioca di sicuro. Dov’è Chiesa? Eccolo laggiù, Chiesa. Sta bene, potrebbe partire titolare. Anche Belotti ci spera. E, a sorpresa, ci spera pure Bernardeschi (Mancini, poco fa, in conferenza stampa, ha buttato lì il suo nome: vedremo).
Vento di scirocco, zanzare, ultimo allenamento, centro Giulio Onesti.
C’è l’odore buono dell’erba bagnata.
Se il calcio ha un odore, è questo.
Il campo è stato innaffiato su richiesta del c.t. Inzupperemo anche il prato dell’Olimpico. Siamo una squadra di brevilinei con un’idea di gioco precisa e grandiosa: vogliamo andare in gol palleggiando. E più il pallone scivola veloce, più il nostro flipper è efficace (il Galles poi, se si escludono Bale, Ramsey e Allen, gente di piede notevole, ha tutti fisicacci che, da bambini, avrebbero potuto tranquillamente decidere di giocare a rugby).
«Torello»: Emerson, Di Lorenzo, Toloi, Acerbi, e Bonucci in mezzo. Chiellini lavora a parte. Florenzi con un fisioterapista. Mancini dice qualcosa all’orecchio di Bastoni: così giovane e già campione d’Italia, talento puro, anche se finora, in questo Europeo, per lui nemmeno un minuto. Però la storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso: il c.t. la pensa come Francesco De Gregori.
Poi tutti sappiamo che una squadra di calcio è un genere di comunità piuttosto bizzarra, anomala, che sta insieme, e corre insieme, e si batte insieme, reggendosi su equilibri precari, alchimie misteriose. Per sentirsi dentro un gruppo può bastare mezza occhiata. Ma, a volte, serve altro. Una voce autorevole diversa da quella dell’allenatore. Lele Oriali, il team manager, certe sere, a Coverciano, sa a quale porta bussare. Ciao, ti disturbo? Poi parlano dell’ultima partitella, della fidanzata, della playstation che ai bei tempi andati di Oriali non esisteva: a Vigo, Casa del Baron, sede del ritiro azzurro nel mitico Mundial dell’82, solo libri (pochi) e interminabili partite a biliardo e a carte.
Mancini sa che i momenti della tattica, delle linee tracciate sulla lavagna, dei filmati visti e rivisti per capire l’uscita sbagliata, il raddoppio fuori tempo, servono ma non sono tutto. È stato davvero molto furbo a crearsi uno staff di assoluto valore (del resto i grandi allenatori sono spesso anche furbi: in Herrera e Liedholm c’era addirittura del genio leggendario, tra i contemporanei dicono che Tuchel abbia astuzie molto promettenti).
Nello staff, così, non c’è solo Oriali.
Ci sono anche amici solidi, e una specie di fratello.
Su Gianluca Vialli molto è già stato scritto. Il suo incarico di capo delegazione spiega qualcosa, non tutto: ogni riga in più è retorica dolciastra e inutile. Ma è chiaro che con Vialli lì, a bordo campo, con il suo sguardo pieno e profondo, qualsiasi azzurro deve pensarci bene prima di dire no, non mi piace, così non ce la faccio.
Gli altri, anche ora, seguono l’allenamento schierati accanto a Mancini. C’è Alberigo Evani, il suo vice: quei baffi un po’ così, una robusta esperienza da tecnico federale e la complicità con il c.t., perché pure lui giocò in quella bellissima Sampdoria. Come Attilio Lombardo, come Fausto Salsano, come Giulio Nuciari che allena i portieri insieme a Massimo Battara, il quale invece lavorò con Mancini ai tempi dello Zenit San Pietroburgo.
Gente di calcio cresciuta insieme.
Daniele De Rossi è entrato per ultimo. Un giro di Europeo, uno stage prestigioso, studia da allenatore, ha visto quello che è accaduto ad Andrea Pirlo. Però, anche qui: Mancini, accettandolo nello staff, sapeva che per molti azzurri è una specie di leggenda vivente. Non solo campione del mondo nel 2006: ma uomo leale e coraggioso (chiudere la carriera al Boca, giocare in quello stadio, La Bombonera, quando sai che le gambe quasi non ti reggono più: sì, devi avere molta garra).
Per capirci: se Locatelli, nelle prossime ore, dovesse avere qualche perplessità a tornare in panchina per lasciare spazio a Verratti, De Rossi troverebbe le parole giuste per spiegargli che funziona così: o ti chiami Baggio, oppure dici okay mister, certo, mi spiace un po’ ma va bene, vado in panca.
Intanto l’allenamento è finito.
Niente da segnalare.
Gli azzurri risalgono sul pullman per tornare in albergo e l’ultimo a salire – come sempre – è Vialli (all’inizio dell’Europeo, partendo da Coverciano, quasi se lo dimenticarono giù: e, da allora, il rito si ripete. Del resto, come spiegava Eduardo: «Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male»).