Corriere della Sera, 20 giugno 2021
La biologa tedesca che studia la foresta dove 50 anni fa cadde il suo aereo
Catapultata fuori dall’aereo che un fulmine aveva squarciato, Juliane Koepcke precipitò per 3 mila metri: ad attutirne la caduta furono le folte chiome degli alberi secolari dell’Amazzonia, che ancora oggi ricorda di aver visto dall’alto e trovato «somiglianti a broccoli». «La foresta mi ha presa», ricorda oggi a 50 anni dall’incidente aereo di cui è l’unica sopravvissuta e in cui ha visto morire la madre, e in questa frase sembra riassumere il proprio destino.
In quella vigilia di Natale 1971 Juliane Koepcke aveva 17 anni e volava con la madre verso Panguana, nel cuore dell’Amazzonia: lì i suoi genitori, zoologi tedeschi arrivati in Perù nascondendosi in una nave che trasportava sale, avevano fondato una stazione di ricerca e da tre anni vivevano lì con la figlia. La stazione c’è ancora, ha prodotto 315 pubblicazioni su flora e fauna della zona, e la direttrice è lei.
La sua storia è tornata d’attualità con l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario dell’incidente aereo: quello che distrusse il Lockheed L-188A Electra in volo tra Lima e Pucallpa, cittadina portuale sul fiume Ucayali, è il più grave causato da un fulmine finora, e Juliane Koepcke, che ora porta il cognome del marito entomologo Erich Diller, è la sola sopravvissuta.
Nel 1998 il regista tedesco Werner Herzog ha girato un film su Juliane Diller, Wings of Hope, Ali di speranza. Lei ha partecipato dopo anni di silenzio mediatico causato da un altro film, l’italiano I miracoli accadono ancora (1974) «dove ero ritratta come una pazza». Herzog dice di essere scampato allo stesso incidente: avrebbe dovuto prendere il volo per un sopralluogo per il film Aguirre, furore di Dio, ma un imprevisto lo fermò.
Era la vigilia di Natale. Il volo doveva durare un’ora: dopo venticinque minuti la biologa ricorda di aver visto il fulmine colpire l’aereo e sua madre impallidire e dire «È finita». Poi il volo di tremila metri, che Juliane fece allacciata al sedile dell’aereo che funzionò come un paracadute. Una notte e un giorno di semi-incoscienza, ferite minime – un occhio semichiuso per il gonfiore, una clavicola incrinata – e, più che paura, «un ineluttabile senso di abbandono». La via fuori dalla foresta, racconta Juliane Koepcke nel suo memoir Als ich vom Himmel Fiel (2011), durò 11 giorni: unico cibo, un pacchetto di caramelle trovato sul luogo del disastro; pioggia costante; un solo occhio aperto e molto miope; attorno a lei la spaventosa fauna amazzonica fatta di coccodrilli, mante, serpenti.
Proprio allo studio della fauna amazzonica, e a dispetto della tragedia, Juliane Koepcke ha poi dedicato la sua intera vita. Nonostante il comprensibile terrore di volare, è sempre tornata a Panguana, dove nel 2000, morendo, il padre le ha lasciato il ruolo di direttrice. Nel 2011 è riuscita a far dichiarare Panguana riserva naturale, e grazie principalmente alle donazioni di una panetteria di Monaco, ora sono di proprietà della stazione 16,8 km quadrati di foresta. «Avevo giurato, in quegli 11 giorni nella selva», racconta lei ora al New York Times, «che se fossi restata viva avrei servito una causa»; e ha scelto la foresta – «indifesa, in via di sparizione se se ne disbosca ancora il 3%» – che cinquant’anni fa l’ha risparmiata.