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 2021  giugno 20 Domenica calendario

Wimbledon, il tennis in 8 millimetri

Quest’anno la Queue non ci sarà. Coda più famosa del mondo, che ogni anno fin dai primi del Novecento si allungava prima su Worple a Nursery Lane, poi sui dolci pratoni fra Southfields e Church Road per catturare un biglietto per i Championships di Wimbledon, è stata abolita. «Sia la coda sia la rivendita dei biglietti usati sono tradizioni molto care e importanti per Wimbledon, e ci aspettiamo di reintrodurle nel 2022», assicurano però dall’All England Club.
Nel 2020, del resto, era andata molto peggio.
Per colpa della pandemia l’intero cuore verde del tennis, il torneo più antico, famoso e amato del pianeta non si era giocato. Il Covid colpiva duro ovunque, e con grande sofferenza il Committee, il comitato che tutto ordina e dispone al riparo dei rampicanti e dei mattoncini della Club House, aveva deciso che i Doherty Gates, per la prima volta in 75 anni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non si sarebbero aperti.
L’erba, a differenza della terra di Parigi e delle resine sintetiche di Melbourne e New York è una superficie viva, con una stagione obbligata. Spostare in autunno la data, come ha fatto il Roland Garros non era possibile. E neanche economico, visto che i previdenti amministratori british, unici fra quelli dei quattro tornei dello Slam, nel 2003 avevano stipulato una polizza assicurativa che li copriva anche in caso di epidemia, quindi a fine anno si sono ritrovati in cassa 115 milioni di euro. Non i 260 che, in media, produce quell’autentica macchina da soldi che sono i Championships, ma comunque un rimborso sufficiente a sfamare chi con il Torneo ci campa, a partire dalla federtennis inglese che, regolarmente, si intasca una gran parte del surplus, il ricavo netto.
Quest’anno, finalmente, si riparte. Nei prossimi giorni inizieranno le qualificazioni a Roehampton, un paio di miglia di distanza dal Club, dal 28 giugno all’11 luglio il torneo vero e proprio. Il governo di Boris Johnson ha deciso che per tutta la quindicina saranno ammessi 21 mila spettatori al giorno, la metà della capacità dell’impianto, ma che per le finali il Centre Court sarà al completo, con 14.979 posti disponibili. Sempre che la feroce variante indiana non porti a ripensamenti dell’ultimo secondo. «Un Wimbledon un po’ strano è meglio che nessun Wimbledon», ha tagliato corto la numero 1 del mondo Ashleigh Barty, riassumendo con efficacia il pensiero di tutti. Già, perché senza le due settimane più verdi dell’anno, senza i rimbalzi soffici delle sferette gialle sul manto di segale (rye grass), rigorosamente alto 8 millimetri e curato con amore per tutto l’anno da un esercito di giardinieri guidato da Neil Stubley, l’Head Gardener, il tennis non è la stessa cosa.
È a Wimbledon che tutto è iniziato, centoquarantacinque anni fa. Allora si giocava a Worple Road, sui quattro acri acquistati dai fondatori dell’«All England Croquet and Lawn Tennis Club», dove il campo più importante era piazzato in mezzo, fra quelli secondari, e per questo fu chiamato Centre Court (ma non chiamatelo Centrale, per favore). Alla prima edizione dei Championships, nel 1877, si iscrissero in 22, pagando una tassa di iscrizione di una ghinea, mentre il prezzo del biglietto per i circa 200 spettatori era di uno scellino. Vinse Spencer Gore, che ad Harrow era stato capitano della squadra di cricket e se la cavava anche a calcio, ricevendo una coppa del valore di circa 25 ghinee. Nella vita faceva il consulente legale, e probabilmente si morderebbe le mani se sapesse che l’ultimo suo erede tennistico, Novak Djokovic, nel 2019 ha incassato un primo premio di 2,4 milioni di euro.
Nel 1922 il Club si è trasferito nell’attuale sede di Church Road e negli ultimi cent’anni si è trasformato dall’affascinante sede di una sagra vittoriana - con i suoi i vialetti fioriti e affollati di appassionati, le fragole con panna e i calici di Pimm’s, i teloni verdi e le torrette vagamente militaresche - in una megalopoli sportiva in continua evoluzione. L’emozione di entrare dai Doherty Gates, chiamati così in onore di Reginald e Laurie Doherty, i divi fratelli d’inizio Novecento, è sempre la stessa, e l’abilità consumata di chi in questi ultimi decenni ha gestito il torneo è stata proprio di saper miscelare alla perfezione business e tradizione, passato, presente e futuro.
Oggi il Centre Court non è più al centro dell’impianto, ma è dotato, come il nuovo Number 1, di un tetto retrattile trasparente che si chiude in venti minuti e pesa 3000 tonnellate. Tutti gli «show court», i campi principali, sono stati ridisegnati, il bellissimo Museo e i vari shop e ristoranti offrono - a caro prezzo, ma cosa non è caro a Londra? - ai circa 500 mila spettatori che ogni anno visitano il torneo una alternativa per passare il tempo durante le lunghe giornate di gioco. I roof del centrale e del Numero 1 consentono di giocare anche con la pioggia e di notte, e dall’anno prossimo sarà abolita la middle sunday, la domenica di mezzo senza gare che garantiva relax ai residenti delle tante villette immerse nel verde, ma sottraeva incassi. Anche la tradizione, insomma, ha un prezzo.
Un visitatore di trenta o quarant’anni fa oggi stenterebbe a riconoscere l’impianto, eppure il look non è stato stravolto, e nei prossimi otto anni è previsto un ulteriore allargamento. Il Golf Club che si stende arcadico dalla parte opposta di Church Road è stato acquistato dall’All England Club per poco più di 70 milioni di euro, e su quel terreno sorgeranno entro il 2030 un nuovo stadio da 8000 posti e 38 nuovi campi in erba. Dai 4 acri originari ai 50 del nuovo progetto: Wimbledon non sarà solo il più antico, ma anche il più esteso degli Slam, surclassando i colleghi-rivali Australian e Us Open e il Roland Garros.
Anche altri numeri sono più da città che da tennis club: nel 2019 sono state servite 18.061 porzioni di fish and chips (e 6.147 di pasta solo per i giocatori), 276.291 bicchieri di Pimm’s, 191.930 di fragole con panna, 300 mila caffè Lavazza, da anni sponsor del torneo, e gli shop hanno venduto 27.419 dei ricercatissimi asciugamani. Un business enorme, che conta anche su 6.000 addetti, 20 dei quali giardinieri. Il 2019 si è chiuso con la memorabile finale fra Djokovic e Federer nella quale il Djoker ha salvato due matchpoint a Roger, il fuoriclasse che su questi campi ha trionfato un record di otto volte, e che fra pochi giorni comincerà, a quasi 40 anni, la caccia alla nona Challenger Cup, il trofeo dorato con l’ananas sul coperchio che viene consegnato dal Duca di Kent ai vincitori, sul tappeto rosso, in mezzo alle due ali di ballboys. Potrebbe essere l’ultimo Wimbledon per Federer, e per Andy Murray, il primo campione british dai tempi di Fred Perry che ha appena vinto al Queen’s il suo primo match sull’erba in due anni ed è scoppiato a piangere per l’emozione - e questo aggiunge pathos all’attesa. Comunque vada, i court saranno pronti. In marzo Neil Stubley i suoi, che non hanno mai smesso di curarli nemmeno durante lo stop - nessuno è stato licenziato o messo in cassa integrazione - li hanno ripuliti dalle scorie invernali e dalle erbacce, riparando i danni fatti dalle volpi. Ad aprile li hanno fertilizzati e tosati, il 5 maggio sono apparse le prime righe bianche e il 16 giugno il Centre Court era pronto per la tradizionale ispezione di quattro dei 375 membri del Club. «È stato strano, l’anno scorso, fra giugno e luglio, non provare la solita adrenalina» Fra pochi giorni, la cara, vecchia febbre verde dopo un secolo e mezzo sarà di nuovo in circolo.