Specchio, 20 giugno 2021
Intervista a Orhan Pamuk
Orhan Pamuk è un romanziere turco, vincitore del Premio Nobel 2006 per la letteratura. È professore di discipline umanistiche alla School of the Arts della Columbia University di New York. Ha venduto oltre tredici milioni di libri, tradotti in sessantatré lingue. Ha appena pubblicato Veba Geceleri in Turchia, il titolo inglese sarà Nights of Plague.
Non è strano che abbia pubblicato il suo romanzo sulla peste durante la pandemia di Covid-19?
«È una coincidenza. Ci sono scene di peste ne Il castello bianco, un libro precedente, che si svolge nella Istanbul del XVII secolo. Nel 1983 scrissi La casa del silenzio, in cui uno storico indaga su una pandemia di peste. Subito dopo aver finito il mio romanzo precedente La donna dai capelli rossi, mi sono detto che, anche se un romanzo storico sulla peste è un progetto molto impegnativo, avrei dovuto scriverlo. Quando ho iniziato, quattro anni e mezzo fa, i miei amici mi dissero che nessuno avrebbe capito il libro, che la peste era sparita e l’umanità si era lasciata alle spalle queste brutte cose. Cominciai a crederci, ma ero determinato a scriverlo. Non c’è storia dell’umanità senza pandemie».
Si è ispirato a scrittori come Camus, Manzoni e Defoe?
«Nella mia prima giovinezza ho letto La peste di Albert Camus. Però sono stato più influenzato da I Promessi Sposi. Ci sono solo circa 35 pagine dedicate alla peste, ma sono molto realistiche. Il più grande libro mai scritto su una pandemia però è di Daniel Defoe. Gli storici dicono che trovò il diario di suo zio 70 anni dopo la Grande Peste di Londra del 1665 e scrisse così il suo Diario dell’anno della peste».
Perché preferisce Defoe?
«Perché si concentra sulla psicologia umana e scrive di anziani, di combattimenti, di gruppi in preda al panico. Albert Camus è più interessato a ritrarre la peste come metafora dell’occupazione nazista.
Perché ha scelto questo soggetto?
«Ci pensavo da 40 anni, mi piace scrivere romanzi storici, ma le ragioni per scriverlo sono via via cambiate. All’inizio lo pensavo come qualcosa che innesca il pathos esistenziale e le nostre preoccupazioni metafisiche: la vita, il suo significato, e la morte. E anche Dio. Se c’è un Dio, come accettare tutto questo?».
E poi?
«Poi ci ho ripensato e alla fine volevo che il mio romanzo parlasse dei problemi dell’imposizione della quarantena. È da Defoe e Manzoni che ho imparato a considerare questo aspetto politico, perché l’umanità si comporta sempre allo stesso modo. In primo luogo, lo Stato nega e agisce in ritardo; le persone non vogliono crederci, soprattutto negozianti e uomini d’affari che non vogliono chiudere. Il romanzo segue le eterne reazioni a una pandemia».
Perché colloca i suoi tre personaggi su un’isola immaginaria?
«Avevo bisogno di una situazione in cui le persone fossero tagliate fuori dal resto dell’umanità, perché è così che funziona la mia immaginazione. Qui è un’isola; e c’è una pandemia, quindi mettono l’intera isola in quarantena e i personaggi, il maggiore, il governatore e il medico, hanno la responsabilità di imporla e farla rispettare».
Pensa che la peste sia stata ancora più spaventosa della pandemia di Covid-19?
«Con il batterio della peste moriva una persona su tre, mentre con il coronavirus ne muore una su cento. Eppure abbiamo paura del Covid quasi quanto della peste».
E perché?
«Perché sappiamo troppo. Ogni sera vediamo persone che cercano di respirare e muoiono, in tutto il mondo. Non è come quando non c’erano internet, tv, giornali, e solo il cinque per cento dell’umanità sapeva leggere e scrivere».
Come ha trascorso quest’ultimo periodo?
«Di solito insegno a New York nella stagione autunnale, ma l’anno scorso ero lì a marzo. Un giorno sono andato in biblioteca alla Columbia. Qualcuno ha starnutito, e dopo non ci sono più voluto andare. Sono tornato di corsa a Istanbul. Che coincidenza che io avessi scritto un romanzo su una pandemia negli ultimi tre anni e mezzo!».
Era molto spaventato?
«Sì; forse perché avevo più di 65 anni, forse perché all’inizio c’erano pochissime informazioni. Ho davvero ascoltato e obbedito a tutte le normative sul lockdown. Ora il virus è in aumento in Turchia, ma all’inizio il governo è stato molto bravo. Ora ho fatto le mie due vaccinazioni e sto bene».
È stato strano scrivere un romanzo immaginario sulla peste chiuso in casa e preoccupato per la sua salute?
«Quando i miei editori lo hanno letto, hanno detto che sembrava che la realtà stesse imitando il mio romanzo».
Pensa che la letteratura anticipi gli eventi e gli scrittori abbiano un’intuizione di ciò che sta accadendo?
«Non è un’intuizione. Veda Bill Gates. Stava esattamente, quasi profeticamente, mettendo in guardia su questo, ma il mio scopo era di ritrarre gli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e la sua burocrazia. L’imposizione della quarantena è un argomento molto interessante che scrivo come una storia umana, piuttosto che come un avvertimento».
Interessante perché una pandemia è democratica e la morte colpisce tutti?
«La morte è egualitaria, ma le culture sono diverse. Gli europei, i moderni, si rinchiudono e rispettano di più la quarantena, mentre la vita comunitaria nella mia parte del mondo è più forte ed è più difficile rompere le tradizioni».
Dicono che stia iniziando a scrivere un nuovo libro che è la storia di un artista a Istanbul. È autobiografico?
«Sì. Sono un artista mancato; fino a 22 anni volevo fare il pittore, poi ho smesso di dipingere e ho cominciato a scrivere romanzi».
Insegna scrittura creativa alla Columbia University. È possibile imparare a diventare un romanziere?
«Non puoi insegnare a una persona a essere Michelangelo o Picasso, ma puoi insegnargli a usare un pennello. È lo stesso nella scrittura».
Scrive a mano?
«Sì, forse sono uno degli ultimi a farlo. Ho conservato ogni singolo foglio di carta su cui ho scritto negli ultimi 45 anni. L’anno prossimo ne avrò 70 e il mio editore spera di farne una mostra».
Si preoccupa mai di perdere la sua capacità di scrivere?
«Temo di perdere la lucidità. La mia memoria si sta indebolendo. Come accade a tutti».
Lavora ancora con la stessa sensazione che aveva quando era sconosciuto?
«Scrivo lentamente e ho tanti progetti non realizzati, altri romanzi che voglio scrivere su altri argomenti, pubblicare le pagine dei miei diari. Nei momenti di paura, frustrazione e delusione, mi chiedo il significato di tutto questo e dico subito: grazie a Dio, devo finire questo libro, finirlo e prepararlo, tenere questa conferenza. Allora continuo».