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 2021  giugno 20 Domenica calendario

Ritratto di Daniel Libeskind

L’architettura non è basata su acciaio e cemento, o qualche altro elemento, ma sulla meraviglia». Così mi spiegò Daniel Libeskind nel corso del nostro primo incontro, ormai vent’anni fa. Aveva vinto da poco il concorso per ricostruire il grattacielo che oggi conosciamo come Freedom Tower nel luogo devastato dagli attentati terroristici dell’11 settembre e il suo nome era sulla bocca di tutti: partecipavano a quel concorso oltre 5.000 studi architettonici, e, ovviamente, tutte le archistar. Il suo curriculum era impeccabile, a cominciare da quel capolavoro che è il Museo Ebraico di Berlino, la sua vittoria fu accolta da molti come una sorpresa. Sin da quel primo incontro rimasi colpito dalla sua esuberante, contagiosa allegria, la vasta cultura, e la straordinaria capacità di affabulazione: è assolutamente ipnotico quando parla, e comunica innanzitutto un senso di entusiasmo per la meraviglia della vita, eppure la sua esistenza è stata attraversata dal dolore.
Non si può parlare di Daniel, tuttavia, senza citare l’inseparabile moglie Nina, con cui è sposato da oltre cinquant’anni: una donna di straordinaria solidità e acume, che ama parlare in maniera diretta senza fare sconti a nessuno. Vederli insieme è una meraviglia: Daniel rappresenta l’aria quanto Nina rappresenta la terra, lui è certamente l’artista e lei garantisce le fondamenta di ogni possibile creazione.
È nato a Lodz, in Polonia, nel 1946, da genitori sopravvissuti all’Olocausto. Ha vissuto in Polonia per tutta l’adolescenza e poi si è trasferito a Tel Aviv, e quindi nel Bronx: «Sono arrivato in America da emigrante, con la nave, e ancora ho negli occhi l’emozione della Statua della libertà: aver avuto il privilegio di ricostruire la punta dell’isola, martoriata dagli attentati, per me è un’emozione indicibile». Pochi sanno che Daniel è anche uno straordinario musicista, ed è stato un enfant prodige: racconta con un pizzico di orgoglio di aver suonato giovanissimo la fisarmonica alla Carnegie Hall. La scelta dell’architettura arriva in seguito, dopo aver studiato alla Cooper Union e quindi a Londra: pur essendo radicato nella tradizione ebraica, Daniel è un uomo perennemente in viaggio, è perennemente in dialogo con altre tradizioni e culture, al punto che dall’esterno potrebbe sembrare un apolide. I primi riconoscimenti arrivarono a metà degli Anni ’80, quando riuscì a imporre il proprio approccio decostruttivista: nel 1988 il MoMA l’omaggiò insieme ad altri cinque architetti con una mostra che è passata alla storia, «Deconstructivist Architecture». «Le nostre vite sono complesse, come le nostre emozioni e i nostri desideri intellettuali: io penso che l’architettura debba riflettere questa complessità in ogni spazio che abbiamo, e in ogni intimità che possediamo». Non c’è nulla mai di pretenzioso nelle sue affermazioni, ma si capisce che nascono da convinzioni ferme e sono quindi elaborate con un pensiero abituato all’insegnamento: per molti anni è stato un docente estremamente ammirato. Uno degli elementi più significativi, una straordinaria libertà intellettuale: una volta discutemmo a lungo di come alcuni geni dell’umanità fossero nel privato personaggi spregevoli, e avessero idee abominevoli.
La lista purtroppo è lunghissima, mi ricordo che cerchiamo di limitare il campo all’architettura e mi spiegò che Philip Johnson, un architetto che ha ammirato sinceramente, e ha anche avuto modo di conoscere, in politica aveva delle idee mostruose, al punto d’aver tentato di fondare un partito nazista negli Stati Uniti, esultato il giorno della conquista della Polonia da parte di Hitler, e utilizzato il colore marrone bruciato ispirandosi ai muri bruciati nello scempio della notte dei cristalli. «Bisogna sempre separare l’uomo dall’artista: le suo idee sono agghiaccianti e imperdonabili, ma la casa di vetro rimane un capolavoro», chiosò, e poi aggiunse che a differenza di Johnson, Albert Speer, l’architetto ufficiale del regime nazista, era in realtà mediocrissimo. È un grande appassionato di cinema, e tra i registi contemporanei italiani ammira moltissimo Paolo Sorrentino, in particolare Le conseguenze dell’amore. L’ammirazione per Sorrentino si sposa anche con l’amore per Napoli, che ritiene la città più affascinante del mondo: «Non ho mai visto un luogo così pieno di creatività e di libertà. Oltre che di straordinaria bellezza».
Quando parla, mette sempre in collegamento le forme di espressione diverse: la musica con l’architettura, il linguaggio delle immagini con quello della parola. «Il cinema è la grande arte del ’900, e come tutte le arti nuove è stata vista con sospetto, se non con disprezzo, dai rappresentanti delle arti che l’hanno preceduta». Oltre a Sorrentino, ama immensamente Fellini, e considera, cinematograficamente Woody Allen un genio: «Come anche nell’architettura, amo quei registi che rischiano, e non prendono la strada più semplice. E amo chi è in grado di farci ridere: ha ragione Fellini, i comici sono benefattori dell’umanità». Una volta, parlando di come fossero stati stroncati molti capolavori, mi disse: «Ignora i critici, per loro anche Beethoven era un fallimento». Ma nulla lo entusiasma come parlare dell’influenza che hanno l’arte e l’architettura sul modo in cui viviamo: «È strano, ma l’architettura è nella realtà qualcosa di non finito: perché se anche l’edificio è terminato, poi comincia una nuova vita. Diventa parte di una dinamica: come la gente lo occuperà e lo userà».
Ama le città, che definisce «la più grande creazione dell’umanità», e tra le grandi metropoli, è innamorato di New York: «C’è più gente che abita nella zona meridionale la città di quanto ce ne fosse prima degli attacchi terroristici: è un segno di fede e di uno spirito forte». La sua creatività vulcanica va di pari passo con l’amore per la vita, è un suo motto è: «I giovani sono avvantaggiati perché hanno l’intera esistenza davanti a sé per essere stupiti».