il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2021
Intervista a Pupi Avati
Anno 1975, la strada giusta la traccia Ugo Tognazzi: “La prima volta che ci siamo conosciuti mi prese subito da parte e con una confidenza inaspettata mi raccontò una vicenda personale e in teoria indicibile, un qualcosa che forse uno potrebbe confessare solo a un amico. Dopo aver terminato questa confessione capii che si aspettava lo stesso da me, cercava una dichiarazione di debolezza”. E lei? “Di sfighe, di cadute e guai già ne possedevo un menu ricchissimo, quindi fu semplice ‘l’anch’io’. Questa tecnica di conoscersi attraverso una dichiarazione di debolezza è di un’efficacia assoluta, si diventa immediatamente amici. Da allora l’ho adottata”.
Da allora Pupi Avati è uscito dalle tenebre dell’insuccesso, per diventare uno dei registi da Gotha, da traguardo per l’attore in cerca di un curriculum di livello: è uno dei pochi che ancora insegna cinema, spiega la parte, le intonazioni; lui, a 82 anni, si gode questo ruolo, è talmente solido da poter ribaltare il gioco attraverso l’autoironia e la memoria, è una sorta di Cassazione della storia del lungometraggio. E oltre a girare lo Stivale e il mondo per incontri, conferenze e premi da ricevere (il 26 giugno è a Benevento per un riconoscimento alla carriera), già pensa al prossimo film, dedicato a Dante.
Per gli stessi attori, sul set è un maestro di cinema.
In realtà punto sugli aspetti umani.
Psicologo.
È fondamentale, ed è necessario essere pronto a cambiare ruolo a seconda della situazione: quindi divento parroco, medico, papà, nonno, fratello maggiore, o qualunque altra trasposizione necessaria per permettere all’interlocutore di fidarsi. E immediatamente. Come dicevo prima, me lo ha insegnato Tognazzi; (ci pensa) al nostro primo incontro mi trovavo nella situazione più difficile: ero reduce da due film disastrosi, due film sessantottini tipici del tempo, quando si portava sullo schermo una prosopopea che andava contro il cinema stesso e il suo pubblico.
Quindi?
Ugo intervenne nella mia vita con modalità miracolistiche; credo ai miracoli, quindi si avverano, chi non crede è evidente che non li merita.
Lineare.
Questo può apparire anche un discorso sgradevole; insomma, in quel momento Tognazzi era l’attore più quotato, io il peggior regista, quindi il dialogo era decisamente sbilanciato, eppure decise di girare con me La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone; (ci pensa) quell’incontro era nella sua casa al mare, dove organizzava il torneo di tennis, ed ero emozionato, con un po’ di tremolio.
E lì la confidenza.
Riguardava la sfera sentimental-sessuale. La sera precedente aveva avuto un problema con una ragazza.
Disarmato.
Esatto, e da allora capisco bene la paura di un attore che si presenta sul set e ha davanti ottanta persone che lo guardano con aria scoglionata, senza il desiderio di stare lì, mentre lui deve dare il meglio in un lasso di tempo brevissimo.
Accorsi ha raccontato il suo primo provino, era con lei, emozionato…
Alla fine della giornata dovevo scegliere tra due ragazzi; lo chiamai: “Uno è stato migliore dell’altro. Tu non sei il migliore”.
Perché lo prese?
Era simpaticissimo, con una grande carica, e poi la sua fidanzata del tempo mi ha pressato in maniera mortale; (pausa) quando Stefano racconta l’episodio parla sempre della madre, ma non è vero, fu la ragazza: cercò ogni chiave seduttiva, fino a dirmi che avrei dato una chance a un ragazzo che altrimenti si sarebbe suicidato.
Leggerissima.
Non le credetti, però mi parlava di una vita complicata che si sarebbe potuta risolvere con quel ruolo; ecco, quando ti coinvolgono in questioni così personali, è difficile distrarsi, e poi Stefano si presentava con lo spirito di chi si aspetta un grande risultato. È l’atteggiamento giusto.
Altrimenti.
Non sopporto chi ha sul viso la sconfitta, magari entra nel tuo ufficio con lo sguardo obliquo e nell’animo la convinzione che vanno avanti solo i raccomandati: questa categoria di persone non vede l’ora di ottenere un “no” per avvalorare la propria visione negativa del mondo, dove vince chi va a letto con il produttore, e crearsi un alibi per non impegnarsi più di tanto.
I facilitati esistono.
Certo, ma le persone che alla fine ce la fanno, non sono quelle lì: chi utilizza la scorciatoia dura poco; (ci pensa) uno deve sempre sentirsi inadempiente rispetto alla vita.
Anche lei?
Avrei potuto impegnarmi di più, ho la sensazione di non aver ancora girato il film della mia vita, ed è qui che trovo la forza per continuare.
Ne ha molti nel curriculum.
Ci sono registi più prolifici; (sorride) a Roma, Monicelli abitava sopra di me e l’ultima volta che l’ho incontrato è stato per caso mentre usciva da una farmacia con uno spazzolino da denti in mano. Lo fermo, e senza salutarlo esordisco: “Scusa Mario, quanti ne hai girati?” E lui, prontissimo: “65”. “Non ti raggiungerò mai”. A quel punto ho visto una luce di gioia nei suoi occhi da anziano.
A quanti film è?
54, non lo raggiungo. E oltre alla qualità conta pure la quantità: il numero testimonia il trasmigrare attraverso le stagioni del cinema, restando sempre in piedi; un tempo i miei colleghi erano Blasetti, De Sica e Antonioni, oggi ci sono i D’Innocenzo ed Emma Dante.
È un giudizio di qualità?
No, parlo di anagrafe.
Su Sette Chiara Rapacini, vedova di Monicelli, racconta delle riunioni casalinghe tra suo marito e i grandi sceneggiatori. Lei con chi si confronta?
Age, Scarpelli, Benvenuti e altri? Non li frequentavo: del mondo cinematografico derogavo solo per Fellini, poi Mario in quanto vicino di casa, e qualche volta Scola.
Come mai?
Mi tenevo fuori perché erano fortemente seducenti; grazie a Laura Betti entrai nel clima delle terrazze romane, dove trovavi Pasolini, Bellocchio, Siciliano, Moravia: li ascoltavo, ingurgitavo tutto quello che potevo, poi il giorno dopo ripetevo pappagallescamente i loro concetti. Mi spersonalizzavo. Per questo ho chiuso; (ci pensa) da sempre sono spugnoso, ricettivo, mi innamoro facilmente delle persone e delle situazioni, e subito voglio diventare altro. Sono un po’ Zelig, ed è un pericolo per un autore, perché una volta uno vuole girare alla Fellini, l’altra alla Visconti.
Si è emarginato.
Ne ho giovato, aiutato pure dalla mia non appartenenza politica ad alcuno schieramento, se non a un mondo cristiano, e non mi sono avvantaggiato dei gruppi o delle famiglie.
Fellini era molto affascinato dall’esoterismo.
Anche io da ragazzo, perché come Federico provengo da una cultura contadina: l’idea di andare oltre è nella nostra storia, con una matrice religiosa pre-conciliare, dove tutto era concesso.
Torniamo agli attori: per Voglino sono fragilissimi.
Bruno ha ragione, e lui è stato uno dei migliori talent-scout dello show business italiano. I grandi artisti con i quali ho lavorato sono persone profondamente timide; la timidezza è una delle opportunità per diventare un osservatore dell’esistenza altrui, mentre gli estroversi, quelli che alle feste dominano, rimorchiano, raccontano barzellette, si risolvono nella vita e dalla vita non raccolgono quasi niente.
Lei?
Come uno che nelle serate si piazza in un angolo, osserva, terrorizzato che qualcuno lo interroghi; i migliori attori sono timidi o ex timidi, in grado di attraversare la scuola del dolore: nel pugilato chi perde può raccontare il match, perché ci ha pensato, rimuginato, analizzato e sofferto.
Nel cinema?
Sono i film d’insuccesso che ti permettono di crescere.
Come Il ragazzo d’oro.
Quella pellicola mi ha esposto a recensioni di una violenza pure personale, e ho patito sia a livello artistico che finanziario.
Il suo attore preferito è Haber: timido?
È il più bravo, e copre la timidezza con una finta arroganza; ne Il signor Diavolo ha combinato qualcosa di sbagliato, e l’ho redarguito davanti alla troupe. Il suo sguardo mortificato raccontava un’altra realtà, ed è la sua bellezza: con lui è tutto finto quel che appare. E sul set porta la verità.
Nei fatti?
Se uno ha degli attori non in grado di offrire il meglio di se stessi, basta inserire Alessandro e tutto diventa vero. Anche Tognazzi era così: entrava in una scena ed era come un coro di montagna, che permetteva agli altri di intonarsi insieme a lui.
Associa Tognazzi a Haber.
Nei momenti di intimità non vedono l’ora di aprirsi, come i bimbi con la madre; Ugo, durante le riprese di Ultimo minuto, reagì male a una mia indicazione, come se io fossi un regista qualunque, così lo presi da parte. Una volta a casa disse a tutti che l’avevo rimproverato. E Ricky, anni dopo, mi ha rivelato: “Era abbattuto, sosteneva di essere stato sgridato”.
Tra i cinque colonnelli del cinema, il suo preferito.
Alberto Sordi ha offerto le prove maggiori, però Ugo è stato il più coraggioso, si è lanciato in film spericolati; gli altri si sono più cautelati.
Per Fabio De Luigi è autoironico e cinico.
Ammettere i propri errori e utilizzare l’autoironia è fondamentale per un leader; il cinema deve restare un gioco e noi coscienti del privilegio: quando la mattina saluto mia moglie e le dico “vado a lavorare”, lei deve ridere.
Un gioco molto serio.
Appaghiamo l’egotismo, e come diceva Lucio (Dalla) “la necessità di essere amati” che è un segno di infantilismo perenne.
Cesare Cremonini l’ha definita “straordinario e un po’ bugiardo, come Dalla”.
Nella vita è fondamentale mentirsi: se la mattina, quando mi alzo, dovessi fermarmi davanti all’immagine da vecchio riflessa nello specchio, è evidente che non andrei sul set. Invece uno si racconta quello che non è, e poi si affida all’auto-illusione che il film che stai girando metterà in discussione la storia del cinema mondiale; (ci pensa) oramai si è rinunciato all’ambizione, non ci sono più persone che ti dicono “questa volta prendiamo l’Oscar”.
Ci è andato vicino.
Con Il testimone dello sposo siamo arrivati nella cinquina del Golden Globe e a Los Angeles mi avevano annunciato la vittoria: al momento della proclamazione del miglior film straniero, mi sono alzato, mi sono mosso, e nel frattempo sentivo nominare il titolo di un altro.
Sensazione terribile.
Agghiacciante. La notte mi sono trovato a passeggiare con mio fratello per le strade della città augurandomi di finire sotto un camion.
Nonostante la riapertura, gli incassi al cinema sono oltre il drammatico.
Si è persa l’abitudine, eppure i film italiani sono tornati di qualità: abbiamo superato il periodo terribile delle commedie, dove per dieci anni hanno recitato gli stessi attori, gli stessi registi e i soliti intrecci; per fortuna Lei mi parla ancora è uscito sulla piattaforma e con risultati straordinari: quasi un milione di spettatori.
Le serie tv le piacciono?
Non molto, però grazie a loro si lavora tanto: oggi è complicato trovare un direttore della fotografia o un parrucchiere. Il problema è per gli esercenti (pausa). In un contratto che sto per firmare ho inserito la clausola che il film possa uscire bypassando i cinema.
La Sandrelli si è lamentata per le poche inquadrature in Lei mi parla ancora.
È un suo rammarico, e ha ragione, ma il film si fonda sulla morte di lei: se non moriva come cazzo facevo a raccontare la storia?
Serena Grandi si ritiene la sua musa.
Donna buonissima, punita dalla vita come accade alle persone troppo generose che hanno vissuto un successo dovuto all’avvenenza. È un problema che capita con le attrici.
Si riferisce alla Antonelli?
Sì, ma non solo a lei.
Di chi avverte l’assenza?
Di me stesso: non so pensare alla mia di assenza, e non perché mi ritenga necessario, ma perché so che nel momento in cui non ci sarò, causerò un dolore infinito alle poche persone che mi sono vicine.
Chi è lei?
L’alternativo; di tutti i film che ho girato il titolo in cui mi rispecchio di più è Il cuore altrove, perché sono veramente e volutamente alternativo: ho sempre cercato di stare da una parte che fosse solo mia.