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 2021  giugno 20 Domenica calendario

L’Iran e l’arte del baratto


La soluzione è più facile di quanto si pensi: il vecchio ma efficace baratto. Utilizzato anche per importare merci sofisticate e tenere in piedi un’economia che altrimenti sarebbe andata in pezzi. Contro le sanzioni più dure e più tecnologiche di sempre, come l’embargo petrolifero o il rigido blocco delle transazioni bancarie, i businessmen iraniani si sono rivolti ai Paesi amici vendendo la loro merce in cambio di altra merce. E quando non sono stati in grado di portare avanti questo scambio, allora sono ricorsi al contrabbando che qui, all’occorrenza, è ancora florido. Oltre, naturalmente, a triangolazioni commerciali con Paesi vicini. Complici e desiderosi di trarre un profitto.
Era da tempo che alcuni dati non quadravano. Com’era possibile che nell’annus horribils dell’Iran, strozzato dalle sanzioni più forti di sempre, e isolato dalla pandemia di Covid più violenta in Medio Oriente, il valore di tutte le merci importate nel periodo gennaio- maggio 2021 sia salito a 15,3 miliardi di dollari, oltre tre volte i 4,6 del gennaio-maggio 2020, e i 10 miliardi dello stesso periodo del 2019, prima della pandemia?
La risposta è in parte quasi la stessa. Vecchi baratti, non solo con Cina e Russia, ma anche con Paesi come la Germania. Sempre nel periodo gennaio-maggio 2021 la Germania ha più che triplicato l’export delle sue merci in Iran, portandolo a 678 milioni di dollari (dati dogane iraniane) rispetto allo stesso periodo del 2020.
Tre anni di sanzioni durissime volute da Donald Trump hanno inflitto un duro colpo soprattutto alle fasce più povere della popolazione. Lo stesso vale per l’export iraniano di greggio, crollato dai 3,2 milioni di barili al giorno del 2018 ai 150mila del gennaio 2019. Eppure l’Iran è sopravvissuto. È sopravvissuta la sua economia. È sopravvissuto il suo regime. Quella che ormai è definita un’economia di resistenza, resiliente alle tante crisi, ha fatto il suo dovere: ha resistito.
È sufficiente un giro per le strade della capitale per farsi un’idea. Soprattutto nei lussuosi quartieri di Teheran nord, ma non solo. Gli scaffali dei moderni centri commerciali sono colmi di ogni merce, incluse gli ultimi prodotti hi-tech. Le Maserati sono il fiore all’occhiello dei concessionari. Ristoranti e bar sono gremiti.
Certo, bisogna riconoscere che dovunque è un tripudio di merci cinesi (molte arrivano anche da Taiwan). Dai compressori, agli elettrodomestici, ai videogiochi. Ma a Teheran i palati più esigenti possono snobbare il made in China. Basta pagare. Per stimolare la produzione interna strozzata dall’embargo, il governo ha stilato una lista di oltre 1.300 beni di cui è vietata l’importazione. Come olio di oliva, e molti prodotti alimentari. Ma chi non riesce a rinunciare al pregiato olio extravergine italiano, oppure alla Nutella – beni che rientrano nella lista proibita – li può trovare, nella versione originale, sui bancali dei supermercati. Di contrabbando.
«Mettiamola così – spiega Foad Izadi, consigliere dei Conservatori e professore di economia alla Teheran University -. Se l’obiettivo delle sanzioni era rovesciare la nostra leadership, allora è clamorosamente fallito. Se era quello di costringerci a firmare un nuovo accordo sul nucleare con più restrizioni, anche quello è fallito. Se invece era far soffrire la popolazione iraniana, allora ci sono riusciti».
Difficile dargli torto. Oltre il 50% della popolazione si trova sotto la soglia di povertà. La svalutazione del riyal è stata drammatica. «Poco più di due anni fa – spiega Mehdi Zolfaghavi, ex analista della Borsa di Teheran e professore di Economia finanziaria – ci volevano 70mila riyal per un dollaro. Poco prima dell’elezione di Biden, quando si temeva una riconferma di Trump, il cambio era di 320mila riyal per dollaro. Oggi è di circa 280mila».
In questo contesto l’inflazione è schizzata (quest’anno l’Fmi stima che sfiorerà il 40%) «Il tasso medio di interesse, al 20%, non riesce a tenere il passo dell’inflazione. I depositi si erodono. Ecco perché molti iraniani stanno svuotando i conti bancari per acquistare beni rifugio: immobili, beni di lusso, come le auto, ma anche altro, contribuendo a fare andare avanti i consumi sul mercato interno». Il recente boom del settore edilizio iraniano sotto sanzioni si spiega anche così.
Se la disoccupazione è rimasta intorno a numeri accettabili – quella ufficiale è stimata intorno al 12% – spesso è perché in Iran nel settore pubblico lavora un esercito di occupati di facciata. Ma la strategia della “massima pressione” ha perfino avuto degli effetti collaterali. Piacevoli per gli iraniani, soprattutto per l’apparato industriale in mano ai Guardiani della rivoluzione (uno Stato nello Stato che detiene quote di maggioranza nelle grandi aziende del Paese). Molto meno per chi voleva rovesciare il loro regime. Rispetto ai ricchi Paesi del Golfo, afflitti dal morbo della petro-dipendenza e costretti ad importare quasi tutto, l’Iran vanta un’economia più matura e diversificata. In questo contesto, le aziende iraniane che producevano per il mercato interno si sono sbarazzate della scomoda concorrenza straniera ampliando il proprio mercato. In alcuni casi si sono creati dei quasi oligopoli.
Visibilmente soddisfatto, Mohammed Hossein Zeinali, Ceo di Kavir Tire, la più grande azienda produttrice di pneumatici esordisce con una domanda ironica: «Volete vedere come abbiamo aggirato l’embargo? Vi do qualche dato. Contiamo 2.500 dipendenti, nell’ultimo anno fiscale abbiamo aumentato la produzione del 50%, abbiamo migliorato l’efficienza, abbiamo registrato un incremento del 900% degli utili. Siamo quotati in Borsa». Ma i pneumatici richiedono materie prime, come la gomma, di cui l’Iran è quasi sprovvisto, e macchinari piuttosto costosi. «Abbiamo importato tutto ciò attraverso operazioni di scambio. Noi fornivamo soprattutto minerali e metalli, alcuni pregiati, e loro quello di cui avevamo bisogno». Quanto ai macchinari, il Ceo dell’azienda spiega come i cinesi ormai hanno installato due linee produttive in Iran, e comunque come la stessa azienda abbia iniziato a produrre parte dei macchinari.«Certo – continua – vorremo continuare ad acquistare i macchinari italiani. Ma in questo momento è difficile». Poi conclude. «Le sanzioni ci hanno migliorato. Siamo divenuti anche più efficienti».
È ormai una prassi consolidata. I metalli e l’acciaio iraniano sono una “moneta” ricercata. Lo stesso vale per il petrolio, spesso scambiato a prezzi scontati. Un altro businessman ci ha spiegato come in un’operazione di swap una nota compagnia tedesca abbia esportato in Iran due turbine. Quanto alle triangolazioni, Turchia ed Emirati Arabi sono tra i più attivi.
Certo, i dati macroeconomici non brillano. Il Governo deve costantemente affrontare deficit di bilancio. Le riserve della Banca centrale sono in declino. Tra i giovani serpeggia il malcontento. I prezzi di alcuni generi alimentari costano quasi un quarto dello stipendio minimo. A guadagnarci sono state soprattutto le grandi industrie controllate dai Pasdaran. «Sanzioni, ma quali sanzioni? – esclama un commerciante -. Qui arriva tutto. Anche i vaccini. Andate al Bazar, con le giuste conoscenze ne uscite con Pfizer nel corpo».