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 2021  giugno 20 Domenica calendario

Suu Kyi e il compleanno dietro le sbarre

Un compleanno amaro, quello dei 76 anni compiuti ieri per Aung San Suu Kyi. Non solo perché è stato il quindicesimo trascorso dietro le sbarre – reali del carcere o simboliche ai domiciliari – dal 1989, ma anche perché nelle strade e nelle campagne i birmani dell’etnia maggioritaria ma anche quelli delle minoranze che lei ha cercato inutilmente di aggregare nell’ultimo decennio impegnandosi in un tiro alla fune impari e pericoloso con i militari e i loro interessi, hanno passato un’altra giornata di lotta con i fiori nei capelli per renderle omaggio. Un gran numero di fotografie di acconciature con fiori sono state postate sui social media, con un chiaro riferimento alla donna che tanti birmani continuano a considerare come il «leader legittimo e insostituibile» di un Paese che non solo la ama ma che soprattutto sa che non può fare a meno di lei e del consenso, interno e internazionale che ancora la circonda a 32 anni dalla scelta di restare nel suo Paese d’origine e di rinunciare a una vita in Gran Bretagna con il marito e i due figli.
Ancora una volta, quindi, i birmani hanno trovato un modo per dimostrare il loro rispetto a chi ha guidato per lungo tempo la lotta non violenta contro la dittatura militare, ma anche la speranza perché, pur con tutti i limiti e ambiguità con cui ha di fatto guidato il Paese dal 2011, la Premio Nobel per la Pace 1992 resta insostituibile. Resta però anche in condizioni di non nuocere dal primo febbraio quando, come primo atto del golpe, la giunta militare ha arrestato l’intera leadership democratica del Myanmar e l’intera dirigenza della Lega nazionale per la democrazia di cui Aung San Suu Kyi è stata co-fondatrice nel 1988. Su di lei sono ora in corso procedimenti giudiziari arbitrari e palesemente pilotati e sul suo futuro pesano almeno sette capi d’imputazione che porrebbero probabilmente fine alla sua influenza diretta sul Paese, mettendo a
rischio la sopravvivenza stessa della Lega e di un movimento democratico che nell’ultimo decennio ha cercato in ogni modo di condurre la nazione fuori dalle secche del sottosviluppo e della paura con un consenso internazionale eroso soltanto, dal 2017, dal genocidio contro i musulmani Rohingya a cui l’eroina della democrazia birmana, ministro degli Esteri e Consigliere di stato nel governo uscente è sembrata in qualche modo dare una giustificazione.
Forse, invece, l’apparente accondiscendenza ai diktat forze armate ha segnato il punto più alto della sua capacità di comprendere il Paese e i suoi stessi limiti, cercando di evitare quanto alla fine si è manifestato con la presa di potere dei generali golpisti guidati da Min Aung Hlaing