la Repubblica, 20 giugno 2021
La stanza di Proust
lungo mi sono coricato di buonora». Un vecchio letto in ottone, una trapunta blu. Le tende socchiuse, una stanza avvolta nella semioscurità. È qui che Marcel Proust ha scritto gran parte della Recherche. Non proprio qui, perché quello che propone il Musée Carnavalet è un viaggio nel tempo e nello spazio, alla ricerca di atmosfere letterarie perdute. La stanza del grande romanziere è stata ricostituita in modo fedele nel museo del Marais, con parte degli arredi del suo appartamento di rue Hamelin, nel sedicesimo arrondissement. «Gran parte di questi mobili li aveva ereditati dai genitori. Non ha comprato quasi nulla durante la sua vita», spiega Anne-Laure Sol, la conservatrice che si è occupata del nuovo allestimento. Proust ha passato intere giornate coricato a scrivere in quel letto di ferro, cercando di superare gli attacchi di asma, tra pareti ricoperte di sughero e finestre sbarrate per non far entrare né rumori né polline dall’esterno. È stato il capezzale dove è morto di polmonite il 18 novembre 1922. Nella camera si trovano anche un bastone regalato dal confidente Louis d’Albuféra, una spazzola, il vassoio nel quale usava poggiare i gemelli, un calamaio e una placca di giada. Ogni reliquia suscita un ricordo, una citazione, aiutati dal brani della Recherche in libero ascolto e da foto intime scattate da Paul Nadar proiettate su uno schermo. È un invito molto proustiano a seguire la potenza evocativa degli oggetti. «Cose che in apparenza sono modeste, senza valore», commenta la conservatrice del museo, «ma con una forte dimensione sentimentale». Un vecchio cappotto di lontra troneggia nella stanza. Viene dalla collezione dell’industriale del profumo Jacques Guérin, che si era messo alla ricerca di quell’indumento feticcio nel quale lo scrittore si avvolgeva per combattere il freddo, non amava il riscaldamento sempre per via dei problemi respiratori. Descritto da Cocteau e Morand, e buttato via dalla cognata dopo il decesso del romanziere, il cappotto di Proust è stato ritrovato da Guérin in un’ostinata caccia al tesoro raccontata nel libro di Lorenza Foschini. Altri cimeli sono stati donati dalla famiglia di Céleste Albaret, la governante che accudì lo scrittore fino alla fine, nutrendolo di caffelatte e croissant. Il museo possedeva già molti arredi proustiani nella sua collezione, ma pochi visitatori li conoscevano. Con i lavori di restauro e il nuovo allestimento, presentato al pubblico da qualche giorno, la camera è stata ricostuita al piano terra, in uno spazio più grande. Dopo quattro anni, un investimento di oltre 58 milioni di euro, il più antico museo della capitale ha riaperto con quasi due terzi dell’offerta espositiva presentati per la prima volta. Inaugurato nel 1880, il Carnavalet possiede 625mila opere, un’enciclopedia della storia di Parigi, cominciando nel sottosuolo con la piroga del neolitico rinvenuta nella Senna e gli affreschi dell’antica Lutetia. Ai piani superiori ci sono le “period rooms”, le stanze che rievocano con arredi stili ed epoche, una delle particolarità del museo. La sezione dedicata alla Rivoluzione, con le chiavi della Bastiglia o un pezzo della mascella del rivoluzionario Marat, vale da sola una visita (l’accesso è gratuito). L’ingresso è nella “Galerie des Enseignes”, splendida galleria con le insegne in ferro battuto delle vecchie botteghe parigine, per proseguire verso le nuove scale immaginate dall’architetto responsabile del cantiere, François Chatillon. Il percorso, che si distende tra vari hôtels particuliers, le vecchie dimore dell’aristocrazia, segue ora un ordine cronologico. Nei mesi scorsi, il museo era stato accusato di aver tolto i numeri romani dalle indicazioni su alcune opere, per esempio quando si citano re di Francia come Luigi XIV. «Una polemica fuoriluogo», commenta la direttrice Valérie Guillaume secondo cui il cambio riguarda solo i cartelli per i non vedenti sulla base delle raccomandazioni ufficiali. Parigi – che ha il motto “Fluctuat nec mergitur”, si piega ma non affonda – è l’assoluta protagonista del museo, nei suoi momenti più luminosi e in quelli più bui, e aiuta a relativizzare quest’anno di pandemia. «La città si racconta nella sua polisemia», osserva la direttrice che vede un filo conduttore nella lunga avventura della capitale: «La costante ricerca di libertà». Un buon viatico per l’estate delle ri aperture.