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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Intervista ad Achille Bonito Oliva

L’ultimo situazionista o l’ultimo pulcinella – in fondo le due maschere si somigliano – verrà celebrato con una grande mostra al Castello di Rivoli.
Una vita intera messa a nudo, è il caso di dire. Del resto, nessun critico ha mai esibito come Achille Bonito Oliva il proprio corpo senza veli. Morbido, aggraziato, perfino languido. A metà strada tra il putto e la bajadera.
Ottantuno anni vissuti velocemente, Achille da tempo ha superato la tartaruga, ridotta in immagine a un’accademia lenta e pesante o magari a un sistema di idee artistiche ristretto e provinciale. Lui dalla provincia arriva. È nato a Caggiano, non distante da Salerno, in una famiglia di possidenti, il primo di nove figli. Il più irresponsabile. Il più immaturo. In fondo il meno necessario.
Davvero sei così immaturo come proclami di essere?
«Non sono immaturo, sono infantile. Ho ancora ben chiara la domanda inquisitoria che mia madre mi fece a 5 anni: Achille, che cosa vuoi fare da grande? Il bambino, risposi. E credo di esserci riuscito senza alcun patetismo o preoccupazione. Non è stato l’arresto di una crescita ma un obiettivo pienamente realizzato».
Quindi al centro della tua vita c’è il gioco?
«È fondamentale il gioco. Quello linguistico, degli astri, delle opere, dei corpi. Sono anche un grande ballerino, una delle sfide tra me e Germano Celant era nel chi sapeva fare meglio cosa».
Nel senso?
Provenendo lui dall’oratorio si era guadagnato la fama di grande giocatore di biliardo. Ed era vero. Per me imbattibile. Ma su una pista da ballo non c’era confronto».
Sei davvero strano.
«Trovi?».
La verità è che il vostro vero confronto era sul terreno dell’arte. E lui era più internazionale di te.
«Sei perfido».
Perché? Dopotutto siete stati rivali come Coppi e Bartali.
«Rivali sì, ma non abbiamo mai litigato. Ti dirò di più. Io e Germano siamo stati gli ultimi critici. Dopo sono arrivati i manutentori, i curatori che fanno manutenzione».
Poi il perfido sarei io. Ci tieni tanto alla definizione di “critico”.
«Che altro dovrei essere?».
Sei un critico infantile.
«Te l’ho detto: il bambino che è in me illumina il grande che non c’è».
Traduci questo inizio di filastrocca.
«Il critico-bambino esprime il massimo dell’autonomia di pensiero, perfino dell’irresponsabilità».
Così ti sei bruciato molti ponti alle spalle.
«Alla tradizione preferisco il tradimento. Sospetto che fu questa la ragione vera dell’appoggio che Giulio Carlo Argan diede al mio lavoro. Non ero niente e lui mi vide pronto a tutto».
Cosa vide Argan di così interessante in te?
«Una certa irrisione per il contemporaneo, un modo di essere autonomo e irriverente».
Ma lui era un bonzo piemontese.
«Sotto sotto ciò che di irriguardoso aveva prodotto l’arte. Per questo mi ha usato, quando mi chiese di contribuire al suo manuale dell’arte moderna e contemporanea».
Usato?
«Esattamente, per ridimensionare l’invadenza degli “arganauti”, quella piccola pletora di critici attaccati alla sua mammella. Un giorno, con rara perfidia – lui sì che sapeva esserlo – mi disse: le confesso che da quando lei saltella nel nostro dipartimento Maurizio Calvesi si è fatto ricoverare in una clinica per la cura del sonno!».
Tu invece beatamente sveglio.
«Ho sempre dormito poco senza patirne gli effetti».
Ma cosa racconta questa mostra su di te?
«Sono quasi sessant’anni di lavoro».
Lavoro mi pare una parola eccessiva.
«Di gioco, allora. Ecco, sessant’anni all’insegna del divertimento, dell’edonismo creativo».
Un tempo portavi i baffi. Sono quelli il vero spartiacque della tua vita?
«Non ricordo perché li ho tagliati. Anche Arbasino, dopotutto, li aveva. Ma lui è sempre rimasto se stesso».
E tu?
«Ho scritto L’ideologia del traditore per dimostrare che non si può essere se stessi».
Un libro che uscì quando?
«Nel 1976, un periodo in cui c’erano ancora il primato del politico, il rito assembleare e il ruolo sacro dell’artista con le funzioni dell’intellettuale pubblico».
Alludi al compagno Guttuso?
«Rara coerenza tra arte e politica, la sua».
Ma tu predicavi l’incoerenza.
«Non l’incoerenza ma il mimetismo. Il traditore può essere tutto senza identificarsi con niente. Guarda il mondo e non lo accetta. Ma non agisce per cambiarlo. Del resto un intellettuale ha mai cambiato qualcosa? Ha soltanto subito. Di qui la necessità di mimetizzarsi per non incorrere nelle ire e nei capricci del principe».
E funziona?
«Funziona bene nelle epoche di decadenza, come la nostra o quando, per esempio, si passò dal Rinascimento al Manierismo. C’era stato nel 1527 il “Sacco di Roma” e a seguire la contestazione alla Chiesa. Improvvisamente l’artista perse i punti di riferimento che aveva nel passato. Provò a rifugiarsi nel presente e nella citazione. Mentre il potere continuava a pretendere l’esaltazione di sé, l’artista cominciò a esaltarsi deprimendosi».
Qual è il tuo rapporto con il potere?
«Ineffabile come quello che ebbero i miei avi. Da parte di madre discendo da Celestino V, quello che divenne famoso per “il gran rifiuto”. Io non rifiuto niente. E da parte di padre, da un vescovo ortodosso – un certo Oliva – che fu al seguito di Scanderbeg. Poi tradì e da ortodosso si fece cattolico».
Hai il tradimento nel sangue.
«Iago è il mio modello».
Shakespeare lo disegnò come il più abietto tra gli uomini.
«Non era che un giocatore di scacchi. Maledettamente abile. Un uomo senza passato, confitto nel presente».
Le tue origini sono salernitane.
«Con molta Napoli dentro, che è stato il luogo delle mie frequentazioni intellettuali degli anni Sessanta».
Cosa ti ha dato quella città?
«La lingua mentale: velocità di pensiero e il senso del comico».
È stata l’arte a interessarsi a te o viceversa?
«Un po’ e un po’. Mi ero laureato in giurisprudenza, per non dare nell’occhio. Da giovane, i miei pensarono a una carriera di notaio o di avvocato. Li delusi e nello sconforto familiare mi iscrissi anche a lettere e filosofia. E subito dopo l’arte bussò. Nella persona di Lucio Amelio, che aveva una strepitosa galleria. Cominciammo insieme nell’ottobre del 1965. Facemmo la prima mostra di Joseph Beuys; poi da solo la mia prima mostra di Renato Mambor e Pino Pascali, nella saletta rossa della libreria Guida. Mi aiutò Topazia Alliata».
L’hai conosciuta bene?
«Sì, lei era stata la moglie di Fosco Maraini. Con le relative
tre figlie femmine: Dacia, Toni e Yuki».
Le donne sono state importanti nella tua vita?
«Mi piace coltivare il lato materno. A Roma fu importante Graziella Lonardi. I suoi incontri internazionali d’arte svecchiarono la visione del contemporaneo. In quel contesto realizzai Vitalità del negativo e Contemporanea mescolando tutti i linguaggi possibili. Portai a Roma per la prima volta Bob Wilson, Andy Warhol con i suoi film, Marina Abramovi?, Sol LeWitt e Joseph Kosuth. Avevo dato un bello scossone all’albero dei frutti».
Che rapporto stabilivi con loro?
«L’artista è il mio nemico più intimo. Lui crea io faccio il creativo. Insieme realizziamo, lo dico pomposamente, la realtà visiva dell’arte contemporanea».
Cosa ti dà fastidio dell’arte?
«Il silenzio del pubblico, troppo rispettoso e quindi muto. Ma anche il clamore della celebrazione non mi piace».
Sei parte in causa.
«In che senso?».
Sei il primo critico celebrato con una mostra.
«Prima di me Carolyn Christov-Bakargiev l’ha dedicata a Harald Szeemann sempre nel Castello di Rivoli».
Non siete molto simili.
«È vero: lui svizzero, io quasi napoletano. Abbiamo collaborato diverse volte, anche alla Biennale. Fidati, è
stato uno con i controfiocchi».
Cosa vedrà il pubblico a Rivoli?
«Un percorso diviso in tre momenti. Il filo che tiene insieme tutto questo non lo so. Forse mi dovrei rifare a una definizione dei primi anni Settanta: l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il pubblico contempla, i media celebrano. Di questa mostra sono il curatore (uno dei curatori) e il curato».
A cosa ti fa pensare la “cura”?
«Se penso alla canzone di Battiato mi ammoscio, se penso ad Heidegger mi intriga la sua idea di cura».
Non è molto chiaro cosa voglia dire Heidegger.
«Amo chi confonde le idee e temo coloro che le chiariscono».
Che posto occupa in mostra la Transavanguardia?
«Il posto che le compete. Ruppi gli schemi alla fine dei Settanta mettendo insieme un gruppo di artisti (Chia, Clemente, Cucchi, De Maria, Paladino) che operavano sulla manualità della pittura attraverso il filtro dell’ironia. Il successo spinse l’arte italiana oltre i confini nazionali.
Quegli artisti acquisirono status e fama internazionale».
Come hai vissuto quel successo?
«Con meno fastidio di quello che provavo per le imitazioni. Sulla scia della Transavanguardia gli “arganauti” lanciarono i loro progetti. Maurizio Calvesi con gli “Anacronisti”, Renato Barilli con i “Nuovi-nuovi”. Non ne è rimasto poi molto».
Il confronto vero era con l’"Arte povera”.
«Beh, era un altro livello. Anche se io non penso che l’arte possa avere aggettivi. L’arte è un sostantivo. È trans, cioè ambigua e indecisa a tutto. Mi fai venire in mente un fotoromanzo che ho fatto».
Prima parlami dei tuoi “nudi”. Sono in mostra?
«Certo. La serie è stata realizzata su Frigidaire, dove mi sono messo a nudo raccontandomi ed esibendomi. Me lo chiese il direttore Sparagna. Ogni dieci anni faccio una foto. Seguo il corpo che cambia. Il corpo del critico».
Accennavi al fotoromanzo.
«Ne ho fatto solo uno, si chiamava: “Cosa bolle in pentola”. Nacque dall’iniziativa dell’associazione delle prostitute italiane che volevano portare all’attenzione del pubblico il fatto che lo Stato dovesse garantire le visite mediche per la loro salvaguardia e per quella dei clienti».
Tu che facevi nel fotoromanzo?
«Conosco casualmente una ragazza. La corteggio e la porto a ballare. Poi scopro che è un uomo. Ma all’amore non si comanda. Fuggiamo insieme. Questa era la storia».
Eri in largo anticipo sui tempi.
«Sono un critico che osa».
Un po’ come Totò quando nelle vesti del principe di Casador dice: osi, osi pure…
«Sono un totoista. Interrogami, so tutto».
Gli hai anche dedicato un film per spiegare attraverso la sua mimica e le sue parole l’arte ai bambini.
«Totò è pura avanguardia. I suoi dialoghi con Peppino non sfigurerebbero davanti a quelli platonici».
A proposito di filosofia greca, “A.B.O. Tehatron” è il titolo della mostra. Non è che ti prendi troppo sul serio?
«Per niente; il sottotitolo è “L’arte o la vita"».
Il bambino che è in te cosa sceglierebbe?
«Non sceglierebbe, vive contemporaneamente nelle due dimensioni».
Sei preoccupato di come parleranno della mostra?
«Quando Otello rivolge parole di elogio a Iago, lui risponde: “sono soltanto un critico"».
Un critico ha amici?
«Forse più tra gli artisti che tra i colleghi. Ricordo volentieri Buren, Beuys, Kosuth, e poi la Transavanguardia e Schifano. Per farmi un complimento Schifano mi diceva: “Achì sei peggio di me"!».
Ti manca Celant?
«Mi sento un po’ vedovo. Mi manca anche Lucio Amelio.
In una lettera che gli scrissi, concludevo con una battuta di Totò: muoiono sempre gli stessi».
Hai mai pensato a dove vorresti essere seppellito?
«Perché me lo chiedi. Chiedimi piuttosto che cosa farò da grande».