Robinson, 19 giugno 2021
La difficile arte della traduzione
Tradurre, citando il titolo di un libro di Umberto Eco del 2003, è Dire quasi la stessa cosa, dove la parola chiave è” quasi”. Trasporre una parola da una lingua a un’altra, da un contesto culturale a un altro, ma anche da un’epoca diversa dalla nostra alla contemporaneità, è un procedimento il cui esito lascia sempre molti dubbi perché la fedeltà al testo non è sinonimo di esattezza. La traduzione comporta anche una dose di creatività. Se il libro di Eco era destinato più che altro agli specialisti, ora l’editore Bollati Boringhieri ha pubblicato un testo di un’interprete e traduttrice, Anna Aslanyan, intitolato I funamboli della parola ( traduzione dall’inglese di Enrico Griseri) che affronta invece aspetti molto pratici e racconta storie di chi per mestiere traghetta le parole, appunto, da un idioma all’altro.
Aslanyan, nata a Mosca, di casa a Londra, è collaboratrice di riviste di cultura importanti e la lettura del libro è un’esperienza gradevole. Alcune storie riguardano i problemi degli interpreti agli incontri dei capi di governo e degli Stati. E così, Aslanyan narra delle difficoltà di tradurre in inglese espressioni gergali in russo di Nikita Krusciov, o di esprimere in russo le barzellette italiane di Silvio Berlusconi. Niente di scabroso ma esempi di come la stessa parola, in un’altra lingua, assume un diverso significato. Citiamo un caso: l’interprete dell’ex Cavaliere aveva deciso che la parola “pulce”, in russo andasse sostituita con” tarme” ( ci torneremo).
Ora, da secoli esistono due modi di tradurre. L’autrice li definisce così: addomesticare il testo, portare cioè l’autore sul terreno del lettore – rendere le cose” esotiche” familiari – o viceversa, spingere il lettore in casa dell’autore. Un interprete che lavora con politici e uomini d’affari opta sempre per la comprensione reciproca. Tornando al nostro esempio di prima: per i russi la pulce evoca disgusto, per questo la barzelletta è stata sostituita con la parola tarme. L’interprete di Berlusconi aveva ragione.
La scelta fra i due approcci diventa invece ardua quando si tratta della letteratura o ancora di più della poesia. Brutalmente. Quando leggiamo, in italiano, Guerra e pace, abbiamo a che fare con lo stesso testo che affronta un lettore russo? Certamente no. Però, senza le traduzioni non esisterebbe neanche quel fenomeno che in tedesco si chiama Weltliteratur ( letteratura mondiale, ma anche letteratura del mondo), termine coniato da Goethe per dire: tutte le letterature in tutte le lingue sono legate le une alle altre fino a diventare un insieme. Utopia cosmopolita, realizzata, e basti pensare agli autori letti in decine di lingue e che si influenzano l’un l’altro. Esisterebbe Abraham Yehoshua senza Franz Kafka? Probabilmente no, ma Yehoshua Kafka lo legge in ebraico, non in tedesco.
Ora, i contemporanei di Goethe, citati da Aslanyan, i filosofi come Schleiermacher o Herder, sostenevano che mentre i francesi nelle loro traduzioni adattano tutto alle loro regole di retorica e ai loro costumi, i tedeschi sono più fedeli all’originale; alla ricerca di autenticità, diremmo oggi. Così è rimasto fino ad ora.
Però. Ecco, l’autrice racconta del caso Borges. Lo scrittore argentino, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, lavorava fianco a fianco con il suo traduttore in inglese Norman Thomas di Giovanni. Diventarono un tandem, fino a dividersi equamente i proventi dei diritti dei libri venduti negli States. Borges, secondo Aslanyan, era contrario al” letteralismo”, lasciava spazio al traduttore, ma controllava ogni parola in inglese, lingua che padroneggiava alla perfezione. Dopo la scomparsa dell’autore di Aleph, la vedova María Kodama interruppe i rapporti con di Giovanni e promosse altre traduzioni. Questione di gusti. E parlando di gusti e bellezza, viene citato Vladimir Nabokov che in Lezioni di letteratura russa metteva in guardia dall’ «abbellire l’originale». Intendeva le traduzioni in apparenza ottime di scrittori dalla penna pesante. E comunque, sempre Nabokov tradusse in prosa Eugenio Onegin, «romanzo in versi», per restare fedelissimo a ogni parola di Puškin e vi aggiunse milleduecento pagine di note.
Poi c’è il caso dei Saggi di Montaigne, che gli inglesi lessero nella traduzione di John Florio, letterato del Cinquecento ( amico e interprete di Giordano Bruno a Londra) e dove la sobrietà dell’autore scompare a favore del linguaggio fiorito del traduttore. E gli esempi citati sono tanti: fra i più divertenti, il trattamento dell’erotismo nelle traduzioni delle Mille e una notte.