Robinson, 19 giugno 2021
Anne Sexton, elogio della follia
È rischiosa, lo sappiamo, l’equazione romantica tra genio e follia: ci sono folli non geniali e geni che non sono pazzi. Ma certamente la creazione poetica scaturisce da una zona selvaggia del cervello, un campo di dinamiche semantiche che esulano dalle consuetudini percettive. Sono correnti estranee all’intento di adattarsi alle norme, che si dimostrano incapaci di volare. «Tutta la notte ali cupe/ sbattono nel mio cuore», scrive a proposito della propria insonnia la scandalosa Anne Sexton. Le parole della poesia possono trafiggerci, facendo emergere verità sovversive. Da dove sgorga la sovversione di Anne Sexton? Come decifrarla nel suo aspetto meraviglioso? Le foto di questa poetessa americana, nata nel 1928 e morta nel ’74, denunciano uno charme privo d’incrinature. È bellissima nelle pose in cui sceglie di mettersi in scena. È bella come può esserlo una donna cresciuta in un ambiente ricco e raffinato del New England. Nulla, nel suo fascino adamantino, evoca le fratture di patologie psichiatriche. Invece nella Sexton pulsa una dissennatezza furibonda, e tale contrasto tra l’apparire e l’essere la rende ancora più ammaliante. Lo si avverte bene ne Il libro della follia, uscito nel 1972 e ora ripubblicato da La nave di Teseo, editore che evidentemente tiene a quest’artista, di cui nel 2018 propose una bella biografia romanzata, Dio nella macchina da scrivere, firmata da Irene Di Caccamo. L’attuale riedizione de Il libro della follia, curata da Rosaria Lo Russo e col testo inglese a fronte, è la prima traduzione integrale di The Book of Folly. Oltre a trenta poesie “confessionali”, cioè di stampo autobiografico, accoglie nove brevi poemi su Gesù, come quello che illustra l’episodio evangelico di Lazzaro e come un altro sull’innalzamento della meretrice Maddalena. Quadri che colpiscono per misticismo viscerale. In più Il libro della follia ospita tre racconti sperimentali in prosa:” Ballare la giga”,” Il Balletto del buffone” e” Cala le ciocche”. Feroce è il primo che narra l’anoressia, col rimbalzare dei discorsi madre- figlia a tavola, i pasti odiosi che si consumano nella cornice finto- immacolata dell’ipocrisia borghese e il disgusto dei frammenti di carne che si mischiano alla saliva in bocca. Segue una fiaba nera sul femminicidio, dove il buffone ammazza la consorte e fa danzare le figlie tra girotondi demoniaci. Una mamma s’accascia bucata da uno sparo. Una defunta è stesa in terra «come una piastra di ferro da stiro». Visioni delicate (si fa per dire). Domina il terzo tassello, ispirato a Rapunzel dei Fratelli Grimm, la mania dei capelli, ciocche pazze che scoperchiano l’inconscio sfociando nell’attrazione per il suicidio.
Sexton era violentemente bipolare, o almeno così fu descritta dai suoi psichiatri. Il padre era un ricco industriale e la madre proveniva da un contesto pieno di politici potenti. Erano entrambi alcolizzati e furono genitori duri e anaffettivi. A diciannove anni, per andarsene di casa, Anne sposò il commerciante Alfred Muller Sexton e con lui ebbe due figlie. Sperava che attività quali l’adeguarsi al sogno del ceto medio e «il badare ai bambini mescolando besciamella» alleviassero le sue pene. Ma questo non accadde, anzi. Slittò definitivamente nei propri incubi, da cui soltanto la poesia la confortava. Divenne un’allieva di Robert Lowell, capofila del filone confessionale, e alle lezioni arrivava ingioiellata e sbronza barcollando su tacchi vertiginosi. Inventò componimenti ribaldi e invischianti, meno solenni e archetipici, e anche meno colti, di quelli dell’amica- rivale Sylvia Plath. Provocante e” fisica” al massimo, Anne non temeva di affrontare temi quali la masturbazione, le mestruazioni e gli scarti corporei di ogni tipo. Insieme a Sylvia, dopo i corsi di Lowell, si lanciava in bevute gigantesche di Martini conversando sui modi di autoeliminarsi. Il suicidio era bramato dalle due signore, che infatti lo tentarono più volte prima di riuscirci. Nella collezione di poesie Live or Die, sua terza raccolta, la “diversamente femminista” Sexton ribaltò i dogmi della sua classe e del suo status dichiarandosi incapace di essere madre, moglie e individuo mentalmente stabile. Grazie a quel volume ottenne il Pulitzer nel ’67. In seguito non smise di stordirsi con psicofarmaci, alcol e amanti a raffica. Un giorno, ubriaca di vodka, si chiuse in garage e accese il motore dell’automobile soffocandosi col monossido di carbonio.
Un bizzarro piglio contemplativo ( la spiritualità non manca) e una densa carica isterica si fondono nei suoi versi dai ritmi martellanti e percussivi. Sexton ha una follia creativa modernissima e profetica, da campionessa di un estremismo rock che fuoriesce da margini intellettuali. Forse è da questa prospettiva che andrebbe ulteriormente indagata la sua energica, sorprendente poesia.