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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Intervista a Paul Auster


Quando risponde dalla sua casa di Brooklyn, lì sono le 11 di mattina. Paul Auster a quell’ora è attivo da un po’, visto che per lui le giornate iniziano presto, in genere intorno alle sei con la lettura dei giornali. Impossibile immaginare di coinvolgerlo con videochiamate di qualsiasi tipo, lo scrittore non ha né computer né smartphone e agli apparecchi più sofisticati preferisce un vecchio telefono che a un certo punto della conversazione produce strani rumori, un ticchettio fastidioso e insistente che copre la sua voce. Per un momento viene il sospetto che stia battendo a macchina mentre risponde alle domande. «Ma le pare possibile? – ride – È colpa di questo telefono, fa sempre così, è rotto».
L’interruzione cade a metà di una chiacchierata sulla pandemia, guarda caso proprio nel momento in cui si sta parlando della fragilità della società tecnologica. Auster è per indole scettico sulla capacità dell’essere umano di imparare dalle esperienze, ma su un punto appare possibilista: «Abbiamo capito che nessuno di noi è un’isola e che le metamorfosi del pianeta ci riguardano in prima persona».
Crede che usciremo da questa esperienza con una nuova sensibilità?
«Non saprei, dubito, abbiamo però preso coscienza che siamo connessi gli uni agli altri e che condividiamo la vasta impresa della vita umana con il pianeta. Facciamo parte di un sistema, nessun essere vivente è statico, ciascuno di noi è un processo in continuo divenire».
La parola cambiamento è legata al tempo che passa, la impaurisce?
«Da quando nasciamo non smettiamo mai di cambiare. Da neonati dipendiamo da chi si prende cura di noi, poi lentamente iniziamo a parlare e camminare e di giorno in giorno mutiamo nel corpo e nei pensieri fino a diventare adulti e infine vecchi. È questa ininterrotta e meravigliosa metamorfosi la legge stessa della vita».
Una legge che da Ovidio a Kafka ha nutrito anche gli archetipi letterari.
«Non credo ci trasformeremo in farfalle ma so che niente è fisso, tutto è in movimento. Un movimento del quale siamo parte, per questo è importante comportarsi con responsabilità. Prenda il cambiamento climatico, nessun governo lo sta affrontando con la serietà che merita.
Dobbiamo agire se non vogliamo ritrovarci di fronte a una situazione irrimediabile».
Stiamo facendo troppo poco?
«La storia dimostra che tendiamo a dimenticare e che non sempre impariamo dall’esperienza. L’influenza spagnola del 1918-19 fece molte più vittime del Covid. Morirono 50 milioni di persone eppure dopo qualche anno nessuno ne parlava più. La gente semplicemente non voleva più pensarci, il periodo buio era alle spalle, voleva tornare a vivere. Probabilmente succederà anche adesso. Mi preoccupa inoltre l’acuirsi delle diseguaglianze».
La sfida politica del futuro si giocherà sui temi del lavoro e dell’equità sociale?
«Qui abbiamo problemi tremendi per via di salari molto bassi. La maggioranza dei lavoratori non guadagna a sufficienza. Penso ai contadini o a chi si prende cura di anziani e malati. Credevo che il virus sarebbe servito a capire quanto le nostre vite dipendano dal lavoro di queste persone, pensavo che avremmo chiesto un incremento dei loro stipendi e invece nessuno ne parla».
Che ruolo hanno gli scrittori in periodi come questo?
«Sfortunatamente intellettuali e scrittori negli Stati Uniti non contano niente. Nessuno se li fila, anzi generano sospetto. Questo paese non rispetta l’intelligenza, i professori agli occhi della maggioranza sono privi di qualsiasi interesse. La stupida politica di Trump non ha aiutato. L’ultimo anno è stato complicato. A partire dalla scorsa estate insieme a mia moglie Siri (la scrittrice Siri Hustvedt, ndr) ci siamo mobilitati con il gruppo di scrittori Writers against Trump. All’inizio eravamo 78, ora siamo più di 200. Dopo le elezioni abbiamo cambiato il nome in
Writers for Democratic Action».
Avete visto la democrazia statunitense a rischio?
«Dal 1861, data di inizio della guerra civile americana, non era mai accaduto prima che il Paese si spaccasse così.
Durante l’assalto a Capital Hill ho pensato che poteva succedere qualcosa di catastrofico e che una sorta di follia si fosse impossessata di una larga parte della popolazione».
Una follia amplificata dai social.
«In realtà la società digitale è molto fragile, in balia delle menzogne che si diffondono in Rete».
Per questo si tiene lontano dalla tecnologia?
«Posso permettermi di vivere sconnesso ma capisco che per altre professioni Internet è essenziale. Stiamo però esagerando, abbiamo perso l’abitudine a toccarci, odorarci, guardarci negli occhi. Ero a Parigi anni fa, la città dove gli innamorati si baciano per strada. Camminavo quando sono stato attratto da un ragazzo e una ragazza meravigliosi che invece di baciarsi, come avrei sperato, si ignoravano. Ognuno concentrato a guardare il proprio telefonino. Perfino i film di spie non sono più gli stessi».
Non ci sono più le spie di una volta?
«Immaginiamo un vecchio spy movie: un agente segreto scassina l’ufficio del nemico, ha con sé una torcia e una piccola macchina fotografica. Entra dentro e trova le informazioni che cercava. Fa le foto, rimette a posto le carte, corre fuori dall’edificio e porta il materiale al suo capo. Ora invece si può fare tutto via computer da una stanza a migliaia di chilometri di distanza, in dieci secondi. Siamo diventati così vulnerabili, è orribile».
Continua a scrivere a macchina i suoi libri?
«Da un po’ di tempo gli editori vogliono un file, così mi faccio aiutare a trascrivere tutto al computer. Ho iniziato a scrivere a 15 anni e non ho più smesso, neanche ora che ne ho 74. Penso sia il lavoro più bello del mondo».
Nell’ultimo anno ha preso appunti su quanto ci andava accadendo?
«Dovevo finire la biografia su Stephen Crane, l’autore de Il segno rosso del coraggio, morto a 28 anni, una vita incredibile. È uscita lo scorso ottobre (in Italia sarà pubblicato da Einaudi nell’autunno 2022, ndr). Non ho scritto niente sulla pandemia, anche provando non ci sarei riuscito, non sono un cronista, ho bisogno di tempi lunghi. Ho letto molto però e scoperto una scrittrice americana che avevo trascurato, Katherine Anne Porter.
Il suo Bianco cavallo, bianco cavaliere è meraviglioso.
Racconta di una giovane che viene contagiata dalla spagnola. Sono rimasto sopraffatto dal modo straordinario di descrivere il delirio causato dalla febbre».
La scrittura può essere una terapia?
«Forse per qualcuno. Ho scritto molte cose dolorose autobiografiche, probabilmente in me c’è la voglia di capire, ma non penso di esserne uscito cambiato».
Neanche dopo “L’invenzione della solitudine” in cui racconta del dolore per la morte di suo padre?
«Non so se l’ho fatto per guarire, sicuramente in quel momento scriverne era necessario, doloroso ma inevitabile, mi sembrava che così mio padre non sparisse completamente. La scrittura non serve a farci sentire meglio ma a renderci più umani».
Sta dicendo che possiamo considerare il romanzo un esercizio di umanità?
«Il romanzo è un genere meraviglioso proprio per la sua vaghezza. Può diventare qualsiasi cosa, prendere qualsiasi direzione, essere di cento pagine o migliaia, ma alla fine racconta sempre la storia di persone ordinarie, persone come noi. Ogni romanzo è un atto democratico, l’esplorazione di un’altra coscienza. Questo è il potere dei libri e credo sia insostituibile».