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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Debiti societari a livelli record: 22mila miliardi, allarme tassi


Oltre 3.200 miliardi di dollari nel 2020 della pandemia: mai nella storia le società industriali e quelle finanziarie erano state capaci di collocare un ammontare del genere di titoli di debito. La necessità di fronteggiare le inevitabili crisi di liquidità, unita alle condizioni particolarmente favorevoli create dalle mosse espansive della banche centrali (dopo la sbandata iniziale, i tassi di mercato sono scesi ai minimi storici anche per gli emittenti corporate e financial, oltre che per gli Stati) hanno creato lo scenario ideale.
A ricorrere al mercato sono quindi state non le sole società in difficoltà per la crisi o quelle che hanno fatto provvista per prudenza, ma anche chi ha approfittato della situazione per ridurre il costo del debito esistente. Qualunque sia stato lo scopo, il risultato è stato di creare, secondo i dati raccolti da S&P Global Ratings, una montagna di debiti alta 22mila miliardi che inizia a incutere un certo timore, proprio ora che il vento sui tassi pare cambiato.
I dubbi aumentano quando si guarda alla qualità dei titoli in circolazione. L’accelerazione dello scorso anno ha riguardato infatti le società con merito di credito più basso e rendimento elevato, gli high yield le cui emissioni globali sono aumentate del 12%, il doppio degli investment grade. La categoria cresciuta in assoluto di più (+15% a 8.600 miliardi) è invece quella delle «Triple B», che sta immediatamente sopra al livello che in gergo viene definito junk o «spazzatura».
A ingrossare la fetta degli high yield, che nel mondo vale adesso il 23% del mercato, sono stati anche i declassamenti subiti nell’ultimo anno dagli emittenti (S&P cita fra i 49 «angeli cauti» Ford, Kraft Heinz, Renault e la nostra Atlantia, per un complesso di 385 miliardi). Ed è proprio alla loro vulnerabilità a cui si guarda con maggiore attenzione fra gli analisti, ma senza per il momento eccessivi allarmismi. «Le aziende solvibili non falliscono semplicemente perché i tassi iniziano a risalire in qualche misura dopo aver raggiunto un punto estremamente basso», riconosce Pierre Verlé, responsabile del credito di Carmignac, aggiungendo invece che «le insolvenze derivano dall’interruzione dei modelli di business e dagli errori commessi dagli investitori».
Non c’è inoltre timore per un sensibile aumento degli stessi tassi di interesse, anche perché l’idea che va ancora per la maggiore fra gli economisti è che la fiammata dell’inflazione (almeno negli Stati Uniti) sia temporanea o comunque sotto controllo. Tornando poi al mondo imprese, si ha la sensazione che in questo momento non stiano attraversando situazioni particolarmente delicate: «Sono mediamente ben finanziate e la loro capacità interna di generazione di flussi di cassa sta migliorando», aggiunge Mondher Bettaieb-Loriot, Head of Corporate Bonds di Vontobel.
Anche per questo motivo è difficile ipotizzare un nuovo record di emissioni per il 2021, che pure è iniziato a ritmo sostenuto: «Molti titoli collocati negli ultimi 9-12 mesi sono stati utilizzati per rifinanziare il debito esistente a condizioni migliori», nota Nick Kraemer, Head of ratings performance analytics di S&P Global Ratings. Non ci si aspetta quindi di raggiungere le vette dello scorso anno, ma si pensa pur sempre «a una crescita rispetto ai livelli del 2019, come abbiamo già visto fino a maggio».
Il ritorno alla normalità rischia però di non valere soltanto per le operazioni sul mercato, ma di ripercuotersi anche sui fallimenti. «I tassi di default risaliranno dopo essere stati tenuti artificialmente bassi da quando il mondo si è congelato», avverte Verlé, che tuttavia non si aspetta insolvenze «a ondate», ma «a un ritmo regolare e salutare» e rievoca la teoria di Schumpeter: «I fallimenti – sottolinea – sono essenziali, perché senza di essi i mercati del credito allocherebbero il capitale nel peggior modo possibile».
L’Italia non si allontana da un panorama simile: nel 2020 il debito societario (finanziario e non) è cresciuto del 14% passando dall’equivalente di 336 miliardi di dollari a 382 miliardi. Ciò che tuttavia dà nell’occhio è una minore qualità degli emittenti, che si traduce in una presenza più pronunciata dei titoli high yield, che nel nostro Paese valgono il 32% del mercato.
Anche qui si preferisce però gettare acqua sul fuoco: «I livelli di debito sono aumentati molto poiché lo Stato ha concesso alle società garanzie, che saranno estese fino a 10 anni e daranno tempo a chi ha preso a prestito il denaro di poter ricominciare a stare in piedi da soli», tranquillizza Bettaieb-Loriot, ricordando che in altri Paesi come Francia e Spagna si è fatto in fondo lo stesso. Tutto appare insomma sotto controllo, o quasi. Almeno fino alla prossima recessione.