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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Centovent’anni fa nasceva Pietro Gobetti


Incomincia con un ricordo personale questa imponente raccolta di scritti di Giovanni Spadolini su Gobetti: un incontro al Quirinale, nel giugno del 1981, con l’allora Presidente Sandro Pertini a pochi giorni dall’incarico di formare «il primo governo laico nella storia della Repubblica». I due parlarono di Gobetti – e già il fatto è straordinario –, Pertini gli confessa di non averlo mai conosciuto direttamente, ma di averne discusso a lungo, in carcere, sia con Filippo Turati che con Antonio Gramsci («soprattutto col secondo»). E che entrambi concordavano nel considerarlo una figura «assolutamente singolare e inconfondibile» nella vita culturale e politica italiana, convergendo in particolare su un punto: «l’intransigenza morale, il rigore calvinistico, la volontà di scegliere contro tutti i fautori del conformismo e del trasformismo corruttore» – tratti questi, del carattere prima ancora che della cultura politica, intimamente condivisi da Pertini.
Subito dopo, nella stessa pagina, compare un’altra figura del “mondo di Gobetti”, Eugenio Montale (il cui capolavoro Ossi di seppia era stato pubblicato dalla casa editrice di Piero), con una citazione folgorante, poche righe straordinariamente eloquenti là dove si definisce Gobetti «il compagno di strada, uguale a noi, migliore di noi, l’uomo che fu cercato invano da una generazione perduta, l’uomo che noi ci ostiniamo a cercare ancora nella parte più profonda di noi stessi». Sono tratte da una testimonianza rilasciata il 16 febbraio del 1951, nel venticinquesimo anniversario della morte di Gobetti, dal futuro premio Nobel per la letteratura, in cui è tracciato uno dei più efficaci ritratti che io abbia mai letto di quell’«adolescente scarruffato e occhialuto, di costituzione molto fragile eppure con in corpo un’energia diabolica, che non ebbe probabilmente il tempo di conoscere se stesso».
Così lo descrive l’amico-poeta (l’ultimo che lo vide vivo, in Italia, perché andò a salutarlo alla stazione di Genova nel viaggio verso l’esilio a Parigi dove poco dopo morirà): «Intransigente, dinamico, ostinato, duro a morire ma, ahimé, fragilissimo – angelo vestito da suffragetta, come fu definito – continuo a ricordarlo come un Lohengrin isolato, una figura eroica, un leader senza successo, che aveva però le stimmate del genio».
Questo è anche il Gobetti di Spadolini, colto con impressionante acume psicologico e profondità culturale- politica nella sua reale natura di ossimoro vivente, capace di coniugare nel proprio pensiero radicale, conservatorismo e rivoluzione, amore sconfinato (fino al sacrificio) per il suo Paese e disincantata, feroce denuncia dei suoi vizi radicati, delle sue tare storiche, inemendabili se non a prezzo di un’intransigente vocazione al martirio. Soprattutto capace di raccogliere, nei propri scritti e insieme nelle sue iniziative editoriali, la parte migliore della cultura del tempo, in un mosaico di tessere apparentemente incongruenti che tuttavia si composero a disegnare il profilo di un’implacabile denuncia del fascismo e dei mali italiani (del fascismo come “autobiografia della nazione") e di una visione liberal-rivoluzionaria in un’Italia che del liberalismo aveva conosciuto solo il versante conservatore e che mai aveva vissuto una vera rivoluzione.
Spadolini lo descrive come «un liberale, cui sembrava di vedere le future classi dirigenti nelle aristocrazie operaie» interpretate dal comunismo e dal sindacalismo. Come «un conservatore di nascita, di educazione, di gusto, che aspirava alla rivoluzione, prima di tutto morale». Come «un intellettuale, che desiderava di liberarsi prima di tutto dell’intellettualismo». Come un crociano, ma consapevole «dei limiti del crocianesimo». Un “vociano”, capace di rompere con il padre de la Voce, Prezzolini, quando di fronte al fascismo tradì propugnando la “Società degli Apoti”, laddove Gobetti propugnava la Compagnia della Morte. Un «antiautoritario e anzi libertario» affascinato dalla teoria élitista di Mosca e Pareto, perché «giudicava la lotta di classe come “lo strumento di formazione di nuove élites"».
Un “confuso” lo giudicarono gli stupidi di allora (e molti, ancora, di oggi). Un pasticcione incapace di governare il proprio eclettismo. Era invece il più lucido interprete del proprio tempo, capace di contenerne nel pensiero le drammatiche contraddizioni che ne costituivano la storia. L’unico che capì davvero, nel suo più profondo significato, la tragedia che si stava compiendo e vi rispose nel modo più adeguato: il solo che quel tempo storico permetteva. “Idealismo tragico” definisce Spadolini la chiave di Gobetti e del gobettismo. Ed è espressione particolarmente felice, che spiega perfettamente la struttura antinomica di quell’analisi. E anche la straordinaria energia che quel pensiero sprigionava, perché il solo veramente libero da ogni falsa coscienza. L’unico compiutamente “autentico”. E stupisce che a “scoprirlo” ed esprimerlo come meglio non si potrebbe, sia stato proprio un uomo come Giovanni Spadolini, il ministro della pubblica istruzione del governo Andreotti V, ministro della difesa del primo governo Craxi, a sua volta Presidente del Consiglio tra l’81 e l’82, per lunghi anni al centro di una classe politica in via di progressivo degrado nella fase crepuscolare della Prima Repubblica. Il che tuttavia gioca ad onore della sua lucidità intellettuale e del suo rigore culturale, nel rivelarne modelli e passioni politiche virtuose. Quelli, in fondo, che avrebbero potuto costituire i veri antidoti al degrado in corso. Valgano, a proposito le parole di Montale – ancora lui – nelle pagine conclusive del volume, tuttora valide: «Ed è perciò che Gobetti pur senza additarci un sistema e tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempia di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo».